Giusto vent’anni fa, ci lasciava il grande Leo Ferré, “revolté solitaire”, cantava l’amore e l’anarchia. E’ morto un 14 luglio (del 1993), una data beffarda per uno che non sopportava i cacicchi del consenso e il potere di chi governa: i francesi, quel giorno, festeggiano la presa della Bastiglia, emblema di libertà e indipendenza. Ma Leo Ferré era un uomo in collera: lo avvelenava la stupidità del nostro viver quotidiano. Stava dalla parte dei dannati della terra. E gli piaceva l’andare in bici. Anche i ciclisti, opinava Ferré, quando arrancano sulla salita del Mont Ventoux, sono dannati del pedale. Lassù, la Montagna Calva non perdona. Lassù, ognuno è solo contro tutti: a maggior ragione, quando la tappa cade di domenica e la domenica cade un 14 di luglio. Che intrecci!

Sabato il Tour ha attraversato un paese che si chiamava Mars. Domenica è arrivato in cima al Mont Ventoux, dove il paesaggio è lunare. Non è affatto casuale questo gioco incrociato di nomi e di luoghi. Sabato la maglia gialla pareva un discorso ancora aperto. Domenica la sentenza dell’ascesa totem è stata lapidaria: Christopher Froome è un corridore di un altro pianeta. Ha dominato, ha sofferto: anche i marziani non sono robot. Pure il Campionissimo arrivava stremato: quando succedeva, lo chiamavano, allora, Esausto Coppi…La tosse convulsa di Christopher a fine gara, la faccia sconvolta per lo sforzo e allo stesso tempo gli occhi che ammiccavano felici, quel restare appesi al manubrio per non finire a terra, sono sintomi di umanità, di un minimo di debolezza. Ce lo rendono più simpatico. E certe immagini, diciamo così, inquietanti, sbiadiscono. Che se ci ripensi, ti lasciano sbalordito: lo scatto bruciante in salita, manco avesse un booster sotto il sellino; il ritmo vorticoso delle pedalate, da spavento: nel finale della tappa più lunga (242,5 chilometri) corsa a perdifiato. La media della prima ora è stata di cinquanta chilometri, dopo quattro ore il gruppo rollava a 47! Quanti dubbi. Quante domande che restano senza risposte.

Alla fine, la media compresi i 20,8 chilometri di arrampicata terminale, è stata di 41,7 all’ora. Froome è andato veloce quanto un Vespino, solo che lo ha fatto per 5 ore 48 minuti e 45 secondi, roba da fondere un motorino. Senza dimenticare che la tappa è stata animata da una fuga omerica d’altri tempi, nove scappati via appena lasciata Givors, con il velocista Peter Sagan che ha dovuto attendere il km 208, a Malaucène, per uno sprint che nessuno dei suoi compagni d’avventura ha osato affrontare: infatti il buon Peter è passato in automatico. In palio c’erano venti punti preziosissimi…segnalo che Peter, appena è stato fagocitato dal gruppo, ha salutato la folla con un’acrobazia da motociclista, sollevando la ruota anteriore.

Infine, a memoria futura, una menzione se la merita lo stoico Sylvain Chavanel, eroe piccolo piccolo, unico superstite della fuga, che si è arreso soltanto alle 15 e 54, ripreso dallo spagnolo Mikal Nieve. La sua impresa è stata apprezzata dalla giuria del Tour che gli ha assegnato l’ambito premio della combattività, il più amato dalle folle del ciclismo. E’ la consolazione per chi non vince ma avrebbe meritato di vincere. Chavanel è dall’inizio del Tour che si sbatte per pilotare in volata il suo capitano Mark Cavendish. Inoltre è un tipo assai cordiale, e sa spiegare la corsa come pochi altri.

Momento topico, come dicono gli anglosassoni, i padroni di questo Tour? Non ho dubbi. Alle 16.12 del 14 luglio 2013 le gambe della maglia gialla hanno preso a mulinare vorticosamente: la pedaliera della sua Pinarello sembrava un frullatore. Froome ha fatto il vuoto, il tempo di vederlo sfrecciare come se fosse in un velodromo. Mancavano sette chilometri all’arrivo e un dislivello da far paura. In meno d’un minuto ha raggiunto e demoralizzato il giovane colombiano Nairo Quintana che era scappato via venti minuti prima per raggiungere lo spagnolo Mikal Nieve e già pregustava il successo della vita.

Non appagato dall’exploit, Froome tentava di scrollarselo di dosso, ma con coraggio Nairo è riuscito a riprendere la ruota di Froome. Allora la maglia gialla ha cambiato tattica. Lo ha affiancato, gli ha detto: “Dai, Nairo, lavoriamo assieme”. E ha cercato di motivarlo, “pensavo che mi sarebbe bastato difendere la maglia gialla e che avrei lasciato a Quintana la vittoria di tappa”, ha ammesso Froome.

Balle. A due chilometri dall’arrivo è scattato come una furia, piantando in asso il colombiano che è rimasto con le gambe in croce: “Lui stava sempre a ruota, io a un certo punto ho capito che avevo ancora un po’ di energie per mollarlo”. Viva la sincerità. Per chi ama le statistiche, l’arrampicata della maglia gialla è durata 58 minuti e 25 secondi, un minuto in meno di quanto impiegò Lance Armstrong. Sono il primo a dire che certi confronti sono impropri (differenti i contesti tecnici, climatici, stradali, etc.), però la corsa di Christopher Froome è stata perlomeno impressionante. Sempre che tutto sia come deve essere. 

Froome non è tipo da condividere ecumenicamente il pane e i pesci, come per esempio usava Miguel Indurain, al quale era sufficiente conquistare il Tour ma non umiliare più di tanto gli avversari. Il britannico nato in Kenya e vissuto in Sudafrica ha accelerato sino all’ultimo strappo, cento metri prima del traguardo: l’ha tagliato segnando con una mano il grande logo di Sky – è un’aziendalista – e con la mano destra ha puntato l’indice al cielo: erano le 16.33. In ventun minuti ha disintegrato la corsa, ha legnato il resto della concorrenza, ha di fatto vinto il Tour numero 100. Il calendario della corsa è agli sgoccioli. Lunedì secondo riposo (dei guerrieri), poi la formalità delle ultime tappe alpine e la ciliegina sulla torta di una seconda cronometro. Tanto vale abbassare le armi subito, per manifesta inferiorità tecnica. In classifica, ormai, c’è un solco netto: lui, ben assestato in cima. Gli altri, nel fosso, staccati a cominciare da oltre quattro minuti. Non si vede in giro chi possa batterlo. Figuriamoci, abbatterlo: solo se gli metti un bastone tra i raggi delle ruote.

Froome ha sfruttato di nuovo il gioco di squadra, come già successe otto giorni fa ad Ax. Nel momento giusto, Sky è tornato Sky: con una staffetta che ha scandito il forcing nell’ultima ora di corsa e lo ha intensificato progressivamente in salita: “Temevamo qualche imboscata, eravamo preoccupati per chi sarebbe entrato nelle fughe”, ha detto Bave Brailsford, il manager della squadra, “c’era una lunga terra di nessuno…”. Uno dopo l’altro i gregari si sono passati il testimone nel “tirare”, lasciando il compito più delicato al luogotenente Richie Porte: passo costante e sfessante, senza tregua, con accelerazioni successive per impedire attacchi a sorpresa. Uno dopo l’altro, i corridori di alta classifica hanno grippato. Alberto Contador ha resistito per un po’. Froome lo ha lasciato secco a cinque chilometri dall’arrivo. Pareva un birillo buttato giù da una boccia. Gli olandesi della Belkin, i sorprendenti Bauke Mollema e Laurens Ten Dam, hanno preso atto della differenza: badando, semmai, a non “scoppiare” e a contenere i danni. Il loro obiettivo è chiaro: puntano al podio. Potenzialmente, sono alleati di Froome, e nemici di Contador.

Ecco, dal 16 luglio il Tour continua, ma solo per stabilire chi affiancherà Froome sul podio, e per definire i piazzamenti delle varie classifiche, nonché i punti che determinano i ranghi delle squadre del WorldPro, la categoria d’eccellenza del ciclismo mondiale. Dall’anno prossimo, infatti, saranno solo 18 le formazioni d’élite: la graduatoria dipende dalla somma dei punteggi individuali dei corridori di ciascuna squadra.

Insomma, il Mont Ventoux non ha tradito affatto le attese: come, del resto, Froome. La terribile Montagna Calva e chi l’ha domata si completano, in un certo qual modo. Froome è il migliore scalatore in circolazione. E’ anche un fortissimo cronomen. Il Ventoux non è solo una montagna, come non è un colle, e neanche un passo. E’ un’eresia geografica. Una salita infinita, che inganna. Via via che la strada dipartimentale 974 – bellissimi i cippi bianchi e gialli colore Tour…- si avvicina alla sommità, la foresta diventa sempre più rada, sino a sparire. La montagna resta nuda, ricoperta a malapena dai sassi, dai ciottoli. Appare grigia e biancastra. Spettrale. Non c’è un centimetro d’ombra, “salvo quella che proiettano i campioni del passato”, dicono i suiveurs. Chi si confronta con i loro miti, non si sottrae alla sfida. Fin dall’inizio, il Ventoux è stato un giudice severissimo: da quando fu inserito nel Tour per la prima volta, il 22 luglio del 1951, ha sempre emesso giudizi impietosi. Allora, Lucien Lazarides scollinò in testa, ma il trionfo ad Avignone fu del bravissimo Louison Bobet. Quella volta Fausto Coppi lo valicò in ritardo. A frenarlo non fu la fatica, ma il dolore per la morte del fratello Serse: “Tutto attorno era così desolato, che cominciai a pensare a lui”.

Lettura consigliata: Dominique Jameux, “Fausto Coppi,l’échappée belle. Italie 1945-1960”, Arte Editions/Austral Editions 1996). Jameux è anche coautore del film “Fausto Coppi, une histoire d’Italie”. Per lui le imprese del Campionissimo non furono soltanto una maniera irresistibile di correre e vincere “en solitaire”, ma anche il modo di riuscire a superare i disastri del fascismo e della guerra. Il destino individuale di Coppi e quello collettivo di un Paese stremato ma con la voglia di ricominciare, di ricostruire, di riscattare gli errori e gli orrori di quel passato. Il ciclismo, sport di strada e di popolo, incarnò tribolazioni, speranze e sogni degli italiani.

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