“Morire è facile, è solo essere nati”. E’ un detto brasiliano. Non è difficile incontrare la morte sulle strade del Brasile. “A livella”, come la chiamava Totò, cancella il tempo, il futuro, ma fa nascere il presente. Ammalarsi però è qualcosa che spaventa forse più della morte. Per i brasiliani – soprattutto per quelli che ripetutamente tornano in strada per rivendicare in questi giorni una società che vada oltre l’effimero sviluppo del consumismo voluto dalla politica e dal mercato – la salute è diventata un motivo di lotta. La maggioranza dei brasiliani non possiede un “Plano de Saude”, come è chiamato in Brasile l’assistenza sanitaria privata, con cui un cittadino evita di curarsi nel girone infernale del Sus, il Sistema Unico di Salute pubblica del paese.
Alcuni giorni fa a Cinelandia, si sono concentrati per sfilare nelle strade del centro di Rio de Janeiro, poco più di un migliaio di medici, i quali indossavano i loro bianchi camici e una fascia nera a lutto legata al braccio per simboleggiare la morte della salute pubblica. I dottori erano perlopiù giovani brasiliane dall’aspetto non certo povero, la maggioranza di loro hanno studiato in costose università private. La dimostrazione è avvenuta in una luminosa giornata invernale carioca che aumentava il bagliore dei camici, ma anche delle “loiras”, le bionde mediche che, numerose, facevano risaltare la mancanza di dottori afro-brasileiros fra loro. Le belle e luminose dottoresse non protestavano però contro l’assistenza sanitaria privata – per intenderci quella gestita dalle banche e l’industria sanitaria internazionale che ormai usa la paura di ammalarsi e l’infermità come vere e proprie commodity – ma contestavano lo stato di abbandono in cui si trova la salute pubblica.
A ricorrere al Sus non è la nuova classe media emergente, ma anche quelli della vecchia, per essere chiari, la tradizionale classe media, ormai sempre più decadente e incapace di pagare la privatizzazione della vita, tra qui le spese per l’educazione dei propri figli e l’assistenza sanitaria. Metà della popolazione è indebitata e ha il fiato corto per pagare le rate di acquisto di auto, elettrodomestici e case popolari. Nelle favelas ci vanno a vivere tutti.
Secondo l’Onu, tre miliardi di persone finiranno nelle bidonville del pianeta entro il 2050, se i governi non affronteranno rapidamente il problema dell’urbanizzazione mondiale. Oggi non sono solo i brasiliani a protestare nel pianeta. In un articolo pubblicato sul Wall Street Jounal, lo scientista politico americano, Francis Fukuyama, lo stesso che rimase conosciuto per il controverso libro “The End of the History and the Last Man, 1992″, afferma che le proteste in Turchia, Brasile, Tunisia e Egitto non sono state condotte dai poveri, ma da una gioventù con un “livello educazionale sopra la media”. Loro sanno usare la tecnologia e i social network, come Facebook e Twitter, per spargere informazioni e organizzare manifestazioni.
Non si sono mai viste dimostrazioni e scene di guerra urbana nell’esclusiva Leblon e Larajeiras. A protestare in centro e negli esclusivi bairros sono i figli della classe media che ormai é contro il sistema, incluso i sindacati e le tradizionali organizzazioni di lotta di base. Il web, poi, non è più una rete, ma un campo di battaglia, proprio come se lo immaginavano nel 1969 i militari del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti che hanno finanziato il progetto Internet per combattere l’Unione Sovietica.
Alcune settimane dopo l’inizio delle proteste in Brasile, il giornale O Globo ha pubblicato alcuni documenti confidenziali della National Security Agency divulgati dall’ex tecnico della Cia, Edward Joseph Snowden, il quale ha fatto sapere ai brasiliani che la Cia avrebbe avuto una base a Brasilia e spiato milioni di mail e telefonate di cittadini. Il Brasile è il paese sudamericano più spiato dagli americani. Sono ormai sotto mira del governo brasiliano imprese come Facebook, Googel e Twitter, le quali potrebbero essere usate da forze occulte per sfruttare il malcontento della società brasiliana.