L’affare Shalabayeva è venuto alla luce perché qualche fiammifero di libera informazione ancora riesce ad accendere lucine intermittenti sulle vicende di casa nostra (e noi possiamo toglierci ogni tanto, ma solo ogni tanto, la soddisfazione di parafrasare Humphrey Bogart: “è la stampa bellezza…”).
L’affare Abu Omar è venuto alla luce perché “c’è un giudice a Milano” (segnatevi il suo nome: Armando Spataro).
Resta il dubbio angoscioso: quanti casi Shalabayeva e/o Abu Omar in questi anni non sono venuti alla luce, in quanto la capacità sistemica di mettere tutto sotto silenzio è stata più forte dell’impegno e del coraggio dei singoli?
Perché la verità di fondo, sbattuta da questi scandali sotto gli occhi di chi vuol vedere, è che l’Italia continua a essere uno Stato a sovranità limitata. Ossia, ancora non ci siamo liberati dai pesanti condizionamenti che nel dopoguerra discendevano dall’essere Roma uno dei due punti di attraversamento delle linee di confine nel mondo diviso in blocchi (l’alto era situato a Belgrado). A quel tempo l’origine della subalternità era diretta conseguenza della geopolitica, oggi in larga misura trae alimento dalla naturale vocazione alla servitù volontaria di classi dirigenti intimamente e beatamente vassalle.
Si potrebbe dire che i vincoli internazionali sono sedimentati in riflessi condizionati: una mentalità fondata – al tempo – sull’obbedienza cieca e il silenzio prudenziale. Ma forse sarebbe più giusto riconoscere che l’impatto moralmente devastante della Guerra Fredda è avvenuto su una cultura nazionale già di per sé altamente inquinata nel profondo dalle tabe del servilismo. Fenomeno che gli antropologi fanno risalire alla catastrofe del Seicento, con la regressione del Paese verso forme di rifeudalizzazione latifondistica e la creazione di un vasto ceto medio dipendente, composto da famigli, servidorame e fornitori del Signore.
Ora i Signori sono le potenze dominanti e il nuovo servitorame è incarnato dai gruppi dirigenti nostrani con i loro apparati di controllo; che fortificano la loro presa sulla società grazie alla benevolenza e agli “aiutini” dei nuovi padroni. Certamente americani e tedeschi; ma anche – di volta in volta – molto meno prestigiosi, purché possano beneficiarci con adeguate mance. Come nel caso dei truci kazaki, autorizzati dal comportamento da lacchè degli italici governanti a spadroneggiare in casa nostra come più e meglio gli aggrada.
Possiamo ancora aggiungere che questi ultimi vent’anni sono stati un formidabile acceleratore dell’attitudine nazionale al servilismo: da un lato con un riccone a rischio fallimento – quale Berlusconi – che arruolava una torma di personaggi improbabili (tangentisti emarginati, disoccupati senz’arte né parte, vario cafonal) e altrimenti impresentabili quale personale massa di manovra, dando loro ruoli e status ministeriale esclusivamente dipendenti dal suo personale arbitrio, dalla benevolenza del capo da compiacere sempre e comunque; dall’altro l’operazione culturale di supporto a tali arruolamenti volta a dimostrare che rigore e decenza erano diventati orpelli inutili in un mondo fattosi disincantato, anticaglie da irridere come moralismo.
La banalizzazione a cafonaggine del già di per sé volgarmente arrogante “sei quel che hai”. Che ha certamente prodotto il ben noto rosario di episodi umilianti, di cui ci vergogniamo in quanto italiani.
Che ha probabilmente prodotto ulteriori faccende innominabili di cui non siamo a conoscenza, grazie a presumibili insabbiamenti.
Ma sempre con lo stigma della miserabilità. In una corsa a precipizio verso l’infimo.
Piero Gobetti parlava del Fascismo come “autobiografia della nazione”. La macabra ironia del tempo ci induce a pensare che il caso Alfano – nel suo mix di omissis opportunistici, tracotanza verso i sottoposti e bacio di svariate pantofole – sia diventato la nuova autobiografia nazionale.