In rete a Pechino gli utenti si domandavano perché, nonostante Hiroshima e Nagasaki, "si sono subito convertiti al loro modello di vita, scodinzolandogli dietro e scimmiottandoli perfino nel cibo?". Dalle risposte emergono ancora rivalità e antipatie
Sulla sempre più vispa rete cinese giorni fa c’era l’ennesimo, accesissimo, dibattito sul Giappone. La domanda iniziale era: perché i giapponesi non odiano gli americani? perché, nonostante Hiroshima e Nagasaki, si sono subito convertiti al loro modello di vita, scodinzolandogli dietro e scimmiottandoli perfino nel cibo? Una domanda interessante, che non si pongono solo i cinesi – magari, come in questo caso, per trovare un altro modo di criticare gli “odiatissimi” cugini – ma chiunque abbia avuto occasione di visitare il Giappone e magari di viverci o avere degli amici giapponesi. Una domanda legittima, perché aldilà di quattro scalmanati ultranazionalisti, più “rumorosi” che pericolosi – come tale Nobuteru Sukuzi, sorta di Borghezio locale, candidato alle imminenti elezioni del Senato e fautore della “caccia” ai cinesi e ai coreani – e di qualche storico che comincia, timidamente, a sostenere che almeno una delle bombe, la seconda, forse non era necessaria, è difficile trovare in Giappone esempi di antiamericanismo virulento paragonabili all’antigiapponesismo dilagante – e ahimé crescente – in Cina e Corea. Interessante, tuttavia, è dare un’occhiata alle risposte dei cinesi. Anche perché molte, più che rispondere al quesito iniziale (e cioè perché i giapponesi non odino gli americani) mostrano ancora una volta come i cinesi, almeno quelli che si palesano sul web, odino i giapponesi.
Molti, ad esempio, rispondono che non è vero che i giapponesi non odino gli americani: semplicemente, non hanno il coraggio di dirlo e soprattutto dimostrarlo. Possibile sottinteso: noi cinesi invece sì? Qualcuno ci va giù ancora più pesante: “E’ noto che i cani amino i loro padroni” o altre amenità del genere. Pochi, poi, provano a dare una lettura storica più pacata, ricordando che i popoli non sono responsabili delle azioni dei governi, e che come non è giusto prendersela con i turisti giapponesi di oggi per il massacro di Nanchino, così i giapponesi fanno bene a non prendersela con gli americani per le bombe atomiche. Ma vengono sepolti, appena postano, da una pioggia di insulti ed improperi. Infine, c’è qualcuno che ricorda come anche i cinesi abbiano “dimenticato” le malefatte inglesi, durante la guerra dell’oppio, e che dunque perdono e oblio sono sentimenti possibili e auspicabili.
Anche tra Cina e Giappone, nel lontano 1972, c’è stato un tentativo formale di “chiudere” con il passato. E addirittura con qualche mese di anticipo rispetto allo “storico” viaggio di Nixon in Cina a coronamento della cosiddetta politica del ping-pong. All’epoca alla guida del Giappone c’era tale Kakuei Tanaka, il politico probabilmente più corrotto ma “capace” del dopoguerra, quello passato alla storia – oltre che per il suo arresto nello scandalo Lockeed – per il suo slogan: “Ci sono due mezzi per assicurarsi il consenso. Le parole e i soldi”. Lui era bravo con tutti e due, e non solo portò lo Shinkansen (il primo treno superveloce) a Nigata, la sua provincia (che è come se Tanassi avesse portato il Pendolino a Pescara) ma per la prima (e ultima, visto che non è più successo) volta dal dopoguerra cercò di elaborare uno straccio di politica estera non dico autonoma ma almeno un po’ più “creativa” – e utile – per il Giappone.
Grazie alle sue iniziative, precedute da influenti e capaci “mediatori” e seguite dall’invasione di capitali, Tanaka riuscì a firmare lo storico trattato di pace, amicizia e collaborazione con il presidente Mao e, se non fosse stato “fermato” (dagli americani stessi: furono loro infatti a far arrivare ad alcuni giornali giapponesi la documentazione compromettente sulle mazzette Lockeed) sarebbe probabilmente riuscito a “chiudere” con l’Unione Sovietica l’apparentemente irrisolvibile questione delle Curili meridionali, o, come la chiamano qui in Giappone, dei cosiddetti “territori settentrionali”. Che non è l’unica questione territoriale ancora aperta. Senza entrare nei particolari delle singole vicende, sta di fatto che il Giappone è l’unico paese che in oltre sessant’anni non è riuscito a chiuderne una che sia una, di questione territoriale: ovunque ti giri, sei circondato da scogli – perché di questo si tratta – contesi, vere e proprie mine vaganti che potrebbero esplodere in qualsiasi momento, anche solo per colpa di qualche imbecille nazionalista che decide di fare una bravata, avvicinandosi con un gommone ed incrociandosi con il marò di turno, che come sappiamo di senso dello humour, e sangue freddo, ne hanno, di qualsiasi nazionalità siano, poco.
La questione delle “scuse”, più o meno ufficiali, più o meno sentite, c’entra poco. Non risulta che gli americani abbiamo mai chiesto scusa al mondo per le loro nefandezze e tanto meno per Hiroshima e Nagasaki. Anzi. Ci sono voluti oltre cinquant’anni per portare un ambasciatore Usa a presenziare alle cerimonie di commemorazione il 6 agosto a Hiroshima e nessun presidente Usa in carica – neanche il premio Nobel per la Pace Obama, che pur si trovava in Giappone un paio di anni fa in quella data (ma preferì andare a visitare la vecchia capitale di Kamakura) ha ancora messo piede nel terrificante Museo della Bomba adiacente al parco della Pace. Viceversa, e a differenza di altre potenze nucleari, gli Usa hanno sempre ribadito la possibilità di riutilizzare gli ordigni nucleare, rifiutandosi di aderire al principio di non usarli per primi. Nonostante non chiedano scusa, gli Usa sono più “simpatici”. E non solo ai giapponesi, ma anche a coreani e cinesi.
Perché? Effetto McDonald’s, come ha sostenuto suo tempo il filosofo giapponese Akira Asada? Può darsi. C’è anche il fatto che un conto non è chiedere scusa, come hanno fatto, in modo inequivocabile ed efficace i tedeschi (le immagini del cancelliere tedesco Brandt inginocchiato nel ghetto di Varsavia, nel 1970, sono tra le più intense del secolo scorso), un conto è essere rappresentati da uomini politici, come l’attuale premier giapponese Shinzo Abe, che, come si dice a Oxford, ci “indignano”. Difficile comprendere – se non ricorrendo alla psicanalisi – il motivo per cui Abe, nonostante conti oggi su una popolarità senza precedenti a livello nazionale, e quindi non abbia bisogno di solleticare il peggio del yamato tamashi (lo “spirito nazionale”), debba continuare a provocare i suoi vicini con dichiarazioni, e iniziative idiote e irresponsabili come quella di farsi ritrarre in improbabile uniforme militare o a bordo di un caccia “targato” 731, che è anche la sigla di una famigerata unità segreta basata in Manciuria (all’epoca occupata dai giapponesi) dove gli scienziati di Sua Maestà effettuavano esperimenti in corpore vili. Cioè testavano, sul corpo dei prigionieri di guerra cinesi (ma anche russi) le schifezze batteriologiche che i loro laboratori chimici, all’epoca già all’avanguardia, inventavano.
Un’operazione infame che tuttavia nell’immediato dopoguerra non venne troppo amplificata dagli Usa vincitori, che in cambio del dossier con tutti i risultati “graziarono” una serie di criminali di guerra inizialmente arrestati, tra i quali Nobosuke Kishi, nonno, guarda caso, dell’attuale premier. Non so se queste iniziative siano state proposte, o solo sopportate, dal simpatico Tomohiko Taniguchi, primo “spinner” ufficiale di un premier giapponese (anche se il suo incarico, in inglese, è sfortunatamente tradotto come “responsabile della pubblica immagine e della propaganda”). Che sulla vicenda si è mostrato sorpreso sostenendo che non c’era alcun collegamento con il famigerato laboratorio: “Una foto come un’altra, per dare l’idea di uomo alla guida”. Ma una cosa è certa. Non bisogna essere cinesi o russi per provare, alla vista di certe cose, rabbia e ribrezzo. Se capitate a Tokyo, oltre ai giardini imperiali, al teatro Kabuki e al mercato del pesce, date un’occhiata a questo museo semiclandestino. E capirete perché, sino a quando un discendente della casa imperiale non si inginocchierà a Nanchino, il perdono farà fatica ad imporsi.