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Norvegia, crolla la pirateria grazie ai servizi online. Ma gli artisti si ribellano

Ipsos segnala una diminuzione dei download illegali dell'82 percento nel paese scandinavo. Dati che emergono proprio mentre Thom Yorke dei Radiohead e altri cantanti sollevano il problema della scarsa remunerazione da chi offre contenuti on demand

I pionieri dello scambio di file su Internet lo sostengono da sempre: il fenomeno della pirateria scomparirà solo quando esisterà la possibilità di acquistare legalmente a prezzi ragionevoli musica e film. Ora sembra proprio che quel momento sia arrivato. Secondo una ricerca pubblicata da Ipsos e citata dal sito web Torrentfreaks, il primo paese a far segnare una decisa inversione di tendenza è la Norvegia. I dati che emergono sono impressionanti: rispetto all’1,2 miliardi di copie illegali di mp3 registrati nel 2008, il 2012 ha visto l’asticella fermarsi a 210 milioni. Un calo dell’82,5%, che non si spiega di certo con un contrasto legislativo alla pirateria, anzi: il paese scandinavo è addirittura uno dei pochi che non è riuscito a bloccare l’attività del celebre Pirate Bay sul suo territorio e la nuova (severissima) legge anti-pirateria ha dispiegato i suoi effetti solo dal primo luglio. Ciò nonostante, negli ultimi 4 anni i download illegali di brani musicali sono gradualmente precipitati seguiti, anche se in misura minore, da quelli di spettacoli televisivi e film.

Stando alla ricerca, le cause del cambio di tendenza stanno tutte nella presenza di alternative legali e soprattutto dei servizi di streaming online, che permettono di ascoltare musica gratuitamente (con inserzioni pubblicitarie) o attraverso il pagamento di un moderato canone mensile. Il 47% degli intervistati, infatti, ha dichiarato di utilizzare un servizio di streaming come Spotify e circa la metà di questi ha sottoscritto un abbonamento a pagamento. La comparsa di alternative legali per la visione on demand degli show TV, invece, ha portato a una riduzione del 50% dei download illegali, mentre il calo nel settore dei film è decisamente inferiore. Per verificare se l’analisi è corretta basterà aspettare il prossimo mese di ottobre, data in cui è prevista l’apertura in Norvegia di di Netflix, il servizio per la trasmissione di film e serie TV on demand via streaming con la stessa formula dell’abbonamento utilizzata da Spotify e soci per la musica.

Tutto bene quindi? Non esattamente. Proprio quando i servizi di streaming a pagamento cominciano a essere considerati come una soluzione per mettere fine alla battaglia tra le major e gli “scariconi”, arrivano le prime critiche al modello di business lanciato da Spotify. Ad aprire le ostilità è stato il cantante dei Radiohead Thom Yorke, che ha annunciato di aver ritirato da Spotify tutti i brani pubblicati con gli Atoms for Peace, il progetto parallelo in cui il cantante inglese è affiancato dal bassista dei Red Hot Chili Peppers Flea, Nigel Godrich, Joey Waronker e Mauro Refosco. Il gesto di Yorke, annunciato via Twitter nei giorni scorsi, rappresenta una protesta nei confronti della scarsa remunerazione che sarebbe riconosciuta agli artisti emergenti. Già nei mesi scorsi critiche simili erano arrivate da numerosi artisti. Damon Krukowski, dei Galaxie 500 aveva denunciato la situazione nello scorso novembre, sostenendo che il loro brano Tugboat, ascoltato più di 7mila volte su Pandora (un servizio simile a Spotify, ndr) aveva fruttato ai musicisti la bellezza di 21 centesimi.

La risposta di Spotify al tweet di Thom Yorke è arrivata sotto forma di un comunicato ufficiale in cui l’azienda sottolinea di aver versato fino a oggi oltre 500 milioni di dollari in diritti d’autore e prevede, nel corso del 2013, di arrivare a superare il miliardo. Cifre notevoli, delle quali però non é possibile capire quale sia esattamente la parte riservata agli artisti. Sul sito, infatti, è specificato che Spotify “ha accordi diretti con le etichette discografiche” che sono però “soggetti a rigorosi requisiti di riservatezza”. Tuttavia, si spiega anche che “Spotify paga i diritti d’autore in relazione alla popolarità di un artista sul servizio”. Una politica che secondo Nigel Godrich, produttore dei Radiohead e a sua volta membro degli Atoms for Peace, favorirebbe le grandi major penalizzando le etichette indipendenti, che con questo meccanismo non possono garantire volumi di ascolto sufficienti per garantire la giusta retribuzione agli artisti emergenti.