E’ la conclusione di un’indagine avviata dal Dipartimento alla Giustizia, che ha già condotto alla sospensione di una sentenza capitale in Mississipi. Gli errori dipendono da valutazioni non accurate delle evidenze scientifiche. Non è chiaro, secondo il “Washington Post”, quanti di questi errori potrebbero portare a un annullamento delle sentenze
Ventisette casi di condanne a morte negli Stati Uniti viziate da errori dell’Fbi. E’ la conclusione di un’indagine avviata dal Dipartimento alla Giustizia, che ha già condotto alla sospensione di una sentenza capitale in Mississipi. Gli errori dipendono da valutazioni non accurate delle evidenze scientifiche, emerse dopo la revisione di almeno 120 casi. Non è chiaro, secondo il “Washington Post” che ha potuto esaminare il rapporto prima della sua pubblicazione ufficiale, quanti di questi errori potrebbero portare a un annullamento delle sentenze di condanna. E’ comunque certo che la rivelazione è destinata a ravvivare un dibattito antico e sempre aperto negli Stati Uniti: quello sulla pena di morte.
L’indagine nasce dall’inedita collaborazione tra Fbi, Dipartimento alla Giustizia, un gruppo di avvocati e l’“Innocence Project”, l’associazione che si occupa di raccogliere prove che possano scagionare persone ingiustamente condannate. Di solito su fronti opposti, accusatori e difensori si sono trovati insieme dopo lo scandalo rivelato l’anno scorso proprio dal “Washington Post”, secondo cui per anni il Dipartimento alla Giustizia ha occultato le prove di errori e valutazioni dubbie degli esami del Dna ottenuti nei laboratori dell’Fbi, che hanno condotto alla condanna per decine di imputati. O meglio, i funzionari del Dipartimento hanno informato i pubblici ministeri degli errori, ma non gli avvocati difensori. In un caso, quello di Benjamin Herbert Boyle, ucciso con iniezione letale nel 1997, la comunicazione di analisi errate avrebbe potuto portare a una revisione della condanna a morte. In un altro, John Norman Huffington venne lasciato in prigione con una doppia condanna all’ergastolo, nonostante i pubblici ministeri fossero a conoscenza di esami di laboratorio imprecisi, relativi a frammenti di capelli trovati sul luogo di due delitti.
Proprio l’analisi di laboratorio legata a campioni di capelli, che l’Fbi in rapporti riservati ha cominciato a mettere in discussione a partire dagli anni Settanta come prova definitiva, sembra aver condotto alle decine di condanne errate o dubbie. Alcune conseguenze concrete delle indagini ci sono già state. La “Texas Forensic Science Commission” ha ordinato la scorsa settimana una revisione dei casi basati su campioni di capelli – il Texas è lo Stato americano dove a partire dal 1982 sono stati uccisi più prigionieri. In Mississippi è stata bloccata l’esecuzione di Willie Jerome Manning, un uomo di 44 anni condannato a morte per l’omicidio di due studenti della Mississippi State University nel 1992, cui i funzionari federali hanno messo a disposizione nuove analisi del Dna.
“Quando c’è un problema, bisogna affrontarlo, cercare di capire come risolverlo e poi procedere in modo che non si verifichi di nuovo”, ha detto il “general counsel” dell’Fbi Andrew Weissmann, promettendo che anche i casi dove la condanna a morte sia già stata eseguita verranno rivisti, se si giudicherà che sono stati commessi degli errori. La posizione è apparsa insolita, per un’agenzia che è invece sempre apparsa estremamente reticente a mettere in discussione il suo operato o punire i suoi funzionari per eventuali negligenze o atti apertamente criminali. Quando nel 1995 Frederic Whitehurst, un chimico e avvocato che lavorava nei laboratori dell’Fbi, rivelò la mancanza di professionalità di molte analisi e le pressioni cui lui era stato sottoposto per non renderle pubbliche, l’allora segretario alla giustizia Janet Reno ordinò un’indagine interna all’Fbi. L’indagine durò nove anni e alla fine non pubblicò alcun rapporto, non comunicò i casi che erano stati rivisti né i possibili errori compiuti nel passato.
L’attuale ammissione di 27 casi di condanne a morte viziate da errori arriva nel momento in cui l’opposizione alla pena di morte conosce una rinnovata fortuna negli Stati Uniti. In maggio il Maryland è diventato il 18esimo Stato– e il primo a sud della Mason-Dixon Line, il confine culturale che divide il Nord-est dal Sud – ad abolire la pena di morte. Dal 2007, cinque Stati hanno abolito la pena di morte e nel 2012 sono stati mandati a morte 43 detenuti, contro i 98 del 1999. Anche l’appoggio tra la popolazione appare in calo. Un sondaggio Gallup di fine 2012 mostra che il 63% degli americani è a favore della condanna capitale. Era l’80% nel 1994.