Giovedì scorso, nel palazzo della Corte Penale Internazionale era giorno di festa e di solenni celebrazioni: lo Statuto di Roma, la Carta fondamentale della prima Corte Penale Internazionale della storia compiva infatti 15 anni. Ma la festa è durata poco, giusto il tempo di dare alla stampa un lungo e trionfante comunicato a firma del presidente del tribunale, Sang-Hyun Song, che in pillole, raccontava gli 11 anni di attività (e di successi) della Cpi/Icc e le agenzie di mezzo mondo si sono trovate a dover parlare nuovamente della Corte.

Ma questa volta, con toni ben poco trionfalistici: a poche settimane dal caso Kenyatta per la si apre un nuovo fronte di tensione e polemiche; a dare fuoco alle polveri, il viaggio in Nigeria di Omar Al-Bashir, presidente-dittatore del Sudan, contro il quale la Corte ha spiccato nel 2009 un mandato internazionale di cattura, il primo contro un capo di stato in carica. Le accuse riguardano la tragedia del Darfur: la Corte, vorrebbe Al-Bashir alla sbarra, come mandante di ben 7 crimini contro l’umanità, che includono genocidio, pulizia etnica, stupri di massa e spostamento forzato di popolazioni, nel quadro di uno dei più sanguinosi conflitti della martoriata storia africana post-coloniale, dove hanno perso la vita, secondo fonti delle Nazioni Unite, oltre 300mila persone.

Se il caso Kenyatta aveva riportato a galla antiche tensioni tra i paesi europei e le ex-colonie africane, l’ennesimo scontro rischia di spazzare via questo fragile dialogo instaurato tra Nord e Sud del mondo e basato sulla dottrina dei diritti umani e della cooperazione internazionale.

E questo nuovo focolaio di crisi politico-diplomatica ne è un esempio paradigmatico: Al-Bashir si era recato lo scorso fine settimana ad Abuja, capitale della Nigeria per presenziare ad un summit organizzato dall’Unione Africana, nonostante, per la giustizia internazionale sia un latitante. Visita fugace, conclusa con un giorno di anticipo, secondo fonti africane, per timore che le autorità nigeriane cedessero alle pressioni internazionali e consegnassero il dittatore africano ai giudici dell’Aja.

Ma il Sudan non ha mai riconosciuto la giurisdizione della Corte e l’Unione Africana, da quando è stato spiccato il mandato di cattura, ha fatto quadrato intorno al presidente sudanese: in barba allo Statuto di Roma, che sancisce l’obbligo di arrestare e consegnare all’Aja i ricercati che transitassero sul territorio sottoposto alla giurisdizione degli paesi firmatari, gli stati africani approvarono nel 2009 una risoluzione dove si stabiliva di ignorare la richiesta dell’Aja.

Così il presidente sudanese non ha avuto particolari problemi negli ultimi anni a recarsi in visita presso diversi stati aderenti all’Icc, ricevendo addirittura un invito per un summit in Danimarca. Ma questa volta, le cose sono andate in maniera diversa: alcune organizzazioni nigeriane per la tutela dei diritti umani hanno fatto sentire la propria voce e per la prima volta, dall’Aja, hanno deciso di non chiudere un occhio; nello stesso giorno della celebrazione dei 15 anni dall’adozione dello Statuto di Roma, la Presidenza ha deciso di emettere un secondo, durissimo, comunicato all’indirizzo del governo nigeriano, ritenuto responsabile di non aver arrestato il presidente sudanese, seguito dall’annuncio di una richiesta al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di sanzioni contro la Nigeria. 

La partita è allo stato attuale dagli esiti imprevisti; mentre l’Unione degli Stati Africani prosegue il suo silenzioso boicottaggio alle attività della Corte all’Aja c’è urgente necessità di tramutare i principi solennemente messi nero su bianco nel luglio di 15 anni fa, in fatti concreti, e di soddisfare le aspettative della società civile di mezzo mondo.  

 

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