“Il carcere intorno a cui verte questo dibattito da troppi anni è un falso problema. Sappiamo benissimo che il carcere è finto, nel senso che poi, anche se uno viene condannato al carcere, non sconta la pena”. Sono le parole di Marco Travaglio, intervenuto nell’audizione tenutasi ieri in commissione giustizia della Camera ed estesa ai direttori delle principali testate giornalistiche sulla riforma della diffamazione a mezzo stampa. Il vicedirettore de Il Fatto Quotidiano ha spiegato la propria posizione, sottolineando come negli ultimi cinquant’anni i giornalisti italiani finiti in carcere siano stati pochissimi. “Certamente dobbiamo interessarci della sanzione” – ha precisato – “valutare se la pena detentiva sia o non sia ancora giustificabile attualmente, però io credo che, prima di parlare di questo, dobbiamo essere sinceri”. E ha osservato: “Siamo il Paese dei conflitti d’interesse, e non mi riferisco soltanto a Berlusconi, ma anche tutti quegli editori che fanno gli editori, avendo interessi preponderanti al di fuori del mondo dell’editoria. E tendono molto spesso a usare i loro giornali” – ha continuato – “come clave per picchiare chi ostacola i loro affari e come carote per blandire e nutrire chi favorisce i loro affari. E quindi molto spesso i giornalisti vengono usati a volte come killer, a volte come ‘captatio benevolentiae'”. Travaglio ha sottolineato: “Come si fa a dissuadere un giornale o un giornalista che ha avviato una campagna non perché sia convinto della bontà di quella campagna, ma perché sta facendo il gioco del suo editore, di cui il direttore è l’interprete fedelissimo?”. Il giornalista ha quindi evidenziato che il timore della multa è inesistente, perché “la multa è un investimento per l’editore che ha investito in una certa campagna”. E ha osservato: “Salvando in gran parte l’impianto normativo che c’è, bisognerebbe impiantarci dentro due fondamentali distinzioni: una è quella che aiuti finalmente a separare il reato d’opinione, che non dev’essere più reato, dall’attribuzione di fatti determinati falsi e infamanti, che deve rimanere reato“. Ma c’è un altro punto fondamentale per Travaglio: la buona fede di un giornalista. “La distinzione tra la cattiva fede e la buona fede” – ha precisato – “non la può fare nessuno, né una legge, né un giudice. La può fare la prassi”. E ha concluso: “Io noto un altro tipo di disparità: se critico un politico, quello mi denuncia. Se il politico critica me, io lo denuncio e lui si avvale dell’insindacabilità parlamentare. Questo è abbastanza seccante” di Gisella Ruccia