Oggi in 28 città del mondo – tra cui Roma, Londra, Edimburgo, Glasgow, Brighton, Berlino, Vancouver, Helsinki, Canberra – sex workers e attiviste per i diritti civili manifestano davanti alle ambasciate e ai consolati di Svezia e Turchia. Protestano per chiedere giustizia per gli omicidi di Jasmine e Dora, avvenuti nei giorni scorsi. Jasmine, prostituta e attivista svedese, madre di due figli, di cui aveva perso la custodia perché considerata inadatta essendo una sex worker, è stata accoltellata dall’ex-marito. Dora, turca, donna trans, è stata accoltellata da un cliente. Il Comitato internazionale sui diritti delle sex workers (Icrse), che ha organizzato la mobilitazione, imputa alle politiche di Svezia e Turchia, pur diverse tra loro, l’odio, la violenza e l’assenza di giustizia nei confronti delle lavoratrici sessuali.
In una nota l’Icrse spiega che “la Svezia considera le sex workers come vittime e i clienti come abusanti, negando il ruolo attivo delle donne che vendono servizi sessuali. Questo approccio paternalistico ha portato ad un atteggiamento che infantilizza le donne e discredita le loro scelte ed esperienze, con conseguente violazione dei diritti umani. In Turchia, invece, pur essendo la prostituzione legale, lo stigma che affrontano le donne trans è così alto che pochissime trovano il modo di guadagnarsi da vivere se non attraverso il lavoro sessuale. La Turchia ha scarso rispetto dei diritti umani, della parità di genere e delle minoranze: Dora è la 32esima donna trans uccisa dal 2008.”
Pia Covre, tra le fondatrici del Comitato per i diritti civili delle prostitute (Cdcp), che il 19 luglio sarà in piazza a Roma, dice che “la criminilizzazione porta sempre a conseguenze terribili. Noi vogliamo che il lavoro sessuale venga riconosciuto, che preveda diritti e doveri. La nostra dignità non deve essere calpestata da nessuno. La prostituta non è una persona che può essere presa, comprata e buttata via. Noi non siamo vittime e diciamo basta alla violenza“. Covre ricorda poi che anche in Italia – dove non si penalizzano la prostituzione e l’acquisto di prestazioni sessuali, ma al tempo stesso non li si regolamenta (punendo invece tutta una serie di condotte come favoreggiamento, induzione, reclutamento, sfruttamento) – le prostitute uccise dal 2009 sono state 35.
Non tutti, però, sono concordi nel considerare la regolamentazione e la legalizzazione come soluzione alla violenza. Secondo Pierrette Pape, della European women lobby, ente con base a Bruxelles che riunisce oltre 2.500 associazioni europee e promotore della campagna per “liberare l’Europa dalla prostituzione”, serve altro. “Dai rapporti e dalle ricerche che abbiamo consultato risulta evidente che la regolamentazione e la liberalizzazione non riducono lo sfruttamento. Ad Amsterdam, ad esempio, metà delle 8mila donne in vetrina sono vittime di abusi. Soltanto politiche come quelle svedesi sono efficaci nel diminuire drasticamente la domanda e quindi l’esercizio. Inoltre noi non riusciamo a capire come si possa tollerare un’evidente violazione della dignità della donna che deve vendersi perché è subordinata all’uomo. Se non fosse in una situazione di subalternità non passerebbe per un’esperienza così devastante, in termini di disagi e traumi”.
L’iniziativa della European women lobby è considerata con sospetto dalle attiviste pro-sex worker che vedono in questo tipo di campagne il riflesso di una “paura” istituzionale e sociale delle prostitute emancipate, con una coscienza politica e professionale. Un pensiero questo che era già stato elaborato 30 anni fa nel manifesto del Comitato per i diritti civili delle prostitute: “Fino a quando siamo ricattate, vittime di un protettore che ci controlla e sfrutta veniamo tollerate, quando invece pretendiamo di usufruire degli stessi diritti riconosciuti a tutti i cittadini, quando vogliamo il diritto alla nostra integrità fisica, all’assistenza sulle malattie o a pagare le tasse, veniamo perseguitate e ricattate.”