Tre ore sotto i riflettori televisivi di Bersaglio Mobile su La7, arbitro Enrico Mentana con discussants Marco Travaglio e la tappezzeria di Marco Damilano, sono un buon check-up per la presunta eccellenza comunicativa dell’astro (semi)nascente Matteo Renzi; il sindaco di Firenze ostentatamente piacione/amicone, che ha scelto l’informalità quale cifra stilistica per incarnare un radicale rinnovamento popolarizzato, iconicizzato e gergalizzato in “rottamazione”. Anche se il look del (simil)nuovo che avanza è quel maniche di camicia che ci riporta agli anni Sessanta dei fratelli Kennedy.

Dunque un combinato tendente all’accattivante, sebbene lasciassero intuire un altro Renzi, permaloso e magari vendicativo, le ombre sul viso e la mascella serrata ad ogni minimo sentore di critica (l’improvvisa caduta della maschera bonaria, subito recuperata con studiata disinvoltura sguainando sorrisi gioviali: la scuola democristiana dei “coniglietti mannari” alla Arnaldo Forlani trova sempre epigoni).

Ma prima e più delle spie semiologiche rappresentate da postura, habitus e linguaggio del corpo, per testare il senso e i significati impliciti del presunto “messaggio renziano” valgono le modalità argomentative; che si connotano per tre tratti caratteristici:

1. il trincerarsi nella cultura dei preliminari;

2. il ripiegare nel benaltrismo;

3. la ricerca costante dell’acrobazia con la rete di sotto.

Dunque, genericità, elusività, teatralizzazione di un tremendismo immaginario.

Vediamo punto per punto.

Renzi si proclama un rinnovatore assolutamente determinato. Ma quando deve oltrepassare le giaculatorie indistinte su un novismo di maniera e prospettare effettive novità, la concretezza in dettaglio non fa capolino. Le ricette si arrestano sulla soglia dei problemi, ovviamente indolori e condivisibili quanto qualunque affermazione lapalissiana: la burocrazia che impiccia, l’urgenza di cambiare in un mondo che cambia, l’imperativo di creare lavoro e pensare al futuro dei nostri figli… Come? Il Roosevelt di Rignano sull’Arno risponderebbe che “questo è un altro film” e se si scende nei dettagli poi la gente si annoia. Del resto niente attiva di più le speranze di una ben congegnata vaghezza, che non incorre nel rischio di pericolose verifiche demistificanti.

Renzi propugna la cultura della trasformazione come accantonamento dei concetti datati: dalla centralità del Parlamento al posto di lavoro sicuro. Ma appena il ragionamento prende una piegatura – come si dice oggi – “divisiva”, entra in campo l’ecumenismo cattolico sotto forma di scarto verso tematiche che diventano vie di fuga per orizzonti sempre più sfumati: gli chiedi della sua dichiarata passione per i ricconi/riccastri (tipo Briatore) e lui teorizza la filosofia del dialogo: qualcosa tra il Vaticano II e Guido Calogero. Provi a stanarlo sul fatto che era disponibile a presiedere il governo delle “larghe intese” (la collusione Pd-Pdl, che ora critica) e lui ti replica a ciglio umido diffondendosi sulle piccole imprese alla canna del gas o sul rapimento di bambine kazake.

Renzi ama presentarsi come un duro che non guarda in faccia nessuno, sempre pronto a menare fendenti. Ma il coraggio viene meno se deve dare la baia ai veri duri, agli uomini forti: da Silvio Berlusconi (di cui sponsorizza la rieleggibilità) al presidente Napolitano (i cui schiaffoni incassa da vero “Ercolino sempre in piedi”). Difatti, ora che cresce la tensione polemica, il lottatore duro e puro annuncia di voler adottare il silenzio stampa come un calciatore da strapazzo.

In sostanza, l’impressione complessiva è quella di una furberia impegnata a non offrire punti di riferimento agli avversari e pescare nei bacini elettorali delle controparti. Operazione che potrebbe rivelarsi un boomerang, visto che dà per scontato quanto scontato non è: che l’elettorato in attesa del “qualcosa di sinistra” (lo zoccolo captive del Pd) si accontenti di un blairino fuori tempo massimo.

Ma la vera forza del Renzi è lo squallore della scena politica odierna, in cui fa la figura del guercio nella terra dei ciechi. A cominciare dal senatore fiorentino cinquestelle Maurizio Romani, intervenuto telefonicamente nella trasmissione in corso, che con i suoi balbettii (e il rifiuto di rinunciare all’immunità parlamentare nell’ipotesi di una querela) ha fatto apparire il suo sindaco un colosso politico.

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