Visto che le nuvole sul debito italiano aumentano è meglio preparare l’ombrello. Così lunedì sera mentre al Tesoro si consumava il tavolo su Iva e Imu, Banca d’Italia, Consob, Ivass e Covip hanno emesso delle comunicazioni in cui si invitano banche, fondi comuni, fondi pensione, società di gestione del risparmio a fare sempre meno affidamento sui giudizi delle agenzie di rating. Piuttosto, sostengono i regolatori, vanno rafforzate strutture e procedure interne per una valutazione autonoma del livello di rischio di titoli di stato, obbligazioni e quant’altro si detenga in portafoglio. E, soprattutto, questo nuovo approccio deve iniziare ad essere incorporato nei regolamenti delle banche e delle varie società di gestione.

Messa in altri termini di quello che dicono Standard and Poor’s e company deve importare sempre meno. Una tesi che, alla luce di tutto quanto è accaduto negli ultimi 6 anni, appare del tutto condivisibile e da tempo è sostenuta dallo stesso presidente della Banca centrale europea Mario Draghi o dal neo governatore della banca d’Inghilterra Mark Carney. Tuttavia non può non sorgere un sospetto. Ossia che i regolatori italiani si stiano preparando ad attutire il colpo di un nuovo declassamento del nostro Paese. Dopo il taglio del giudizio di rating operato da Standard & Poor’s lo scorso 9 luglio (da BBB+ a BBB) il debito italiano è entrato in una zona molto pericolosa. I voti delle tre principali agenzie di rating (le altre due sono Moody’s e Fitch) sono infatti tutti allineati su un livello appena superiore al cosiddetto ‘speculative grade’, detto più brutalmente, ‘junk’ (spazzatura). E nelle valutazioni delle agenzie esiste una grande linea di confine che separa, molto più in teoria che in pratica, investimenti ritenuti sicuri da quelli più rischiosi (e redditizi) reputati appunto speculativi. Varcare questa linea può comportare conseguenze molto spiacevoli, soprattutto per un Paese come il nostro ha sul mercato 1.600 miliardi di titoli di Stato.

Numeri alla mano, banche italiane e fondi comuni hanno oggi in portafoglio circa 400 miliardi di euro di Bot, Ctz e Btp. Immaginate un fondo comune a basso rischio che nel prospetto preveda investimenti solo in prodotti teoricamente sicuri classificati come ‘investment grade’. Al momento potrebbe avere in portafoglio Btp in abbondanza ma se il rating sull’Italia scendesse di un solo gradino sarebbe inevitabilmente costretto a disfarsene con immaginabili conseguenze. Ecco perché le comunicazioni dei regolatori spingono affinché il ‘depotenziamento’ dei voti delle agenzia venga incorporato nei regolamenti di banche e società di gestione. Secondo alcuni esperti questo porrebbe porre anche qualche problema di natura giuridica visto che modificazioni dei termini contrattuali possono aprire le porte ai diritti di recesso anche in quei casi, come i fondi pensione, in cui l’investimento è vincolato.

Ma disinnescare la miccia è importante anche perché la stessa Standard & Poor’s, mantenendo sull’Italia prospettive negative, lascia intendere che esiste una possibilità su tre di un nuovo declassamento tra il 2013 e il 2014. C’è poi un secondo aspetto che riguarda più direttamente le banche. Per ottenere prestiti dalla Banca centrale europea gli istituti di credito devono offrire in garanzia altri prodotti finanziari, a cominciare dai titoli di Stato. Oggi i titoli italiani restano ancora tra quelli ritenuti più sicuri ma un nuovo deterioramento del rating italiano farebbe scattare condizioni meno favorevoli per i prestiti Bce rendendo meno conveniente per le banche, sia italiane che estere, detenere in portafoglio Bot o Btp. E’paradossale che proprio Bce e banche centrali che predicano la necessità di ridurre il peso delle agenzie di rating siano poi le prime a basarsi sui loro giudizi nelle loro politiche di erogazione di credito. Ma, almeno per ora, queste sono ancora le regole di un gioco che per il nostro Paese potrebbe diventare molto pericoloso.

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