Vorrei che lo faceste anche voi, immaginando di essere nati in uno stato come l’Eritrea, dove da 20 anni non vengono svolte elezioni democratiche perché c’è un solo partito legalmente riconosciuto. Dove i vostri diritti fondamentali vengono quotidianamente violati e dove esiste un solo organo d’informazione, completamente controllato dal regime. Provate a pensare di essere cresciuti in uno stato dove quasi il 33% della popolazione è analfabeta, con un’economia di sussistenza povera e precaria, che vi impedisce di vivere dignitosamente. Dove il governo rifiuta l’ingresso delle organizzazioni umanitarie nonostante i lunghissimi periodi di siccità e il conseguente stato di emergenza alimentare.
Mettetevi nei panni di un cittadino obbligato a prestare servizio militare per un periodo che può essere indefinitamente esteso, con una paga insufficiente e senza che l’obiezione di coscienza sia ammessa.
E adesso immaginate se, per un colpo di fortuna, riusciste a imbarcarvi nella possibilità di vivere un’altra vita in un altro Paese, anche a costo di rischiare la morte e di spendere i pochi soldi guadagnati. La figura del rifugiato è tutelata dall’articolo 14 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, così come dall’articolo 10 della Costituzione Italiana, che al comma 3 afferma: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
La stessa legge che ha classificato la struttura di Lampedusa come Centro di soccorso e prima accoglienza. Uno spazio rivolto a una primissima fase operativa che poi dovrebbe favorire l’afflusso alle altre strutture presenti sul territorio nazionale e dovrebbe consentire una permanenza breve sull’isola, di norma non superiore alle 48 ore.
Ma la realtà è ben diversa, e persino l’organizzazione Save the children è arrivata a denunciare le difficili condizioni in cui vivono gli immigrati approdati al centrodi contrada Imbriacola. Ospitati all’interno di una struttura che ha una “capienza di 250 posti” e che il 20 luglio ha registrato un totale di “838 persone, tra cui 142 donne e 127 minori”, dove “molti ragazzi sono costretti a dormire all’aperto per terra, senza brandine, e dove le condizioni igienico-sanitarie sono molto precarie, con un numero di bagni e di docce del tutto insufficiente rispetto alle presenze”.
Luoghi in cui questi ospiti si trasformano in clandestini, da tenere sotto controllo per tempi molto più lunghi delle 48 ore previste. Rinchiusi anche per un mese all’interno di una costruzione inospitale e sovraccarica, impossibilitati a muoversi liberamente e senza informazioni sul quando potranno lasciare il centro.
Alla luce di tutti questi presupposti, provate ancora a mettervi nei panni di queste persone. Supponete che vi vengano richieste le impronte digitali per avviare le procedure di identificazione e per l’eventuale riconoscimento del diritto di asilo, ma che il vostro obiettivo non fosse quello di rimanere in Italia, dove è molto più difficile vedersi riconoscere lo status di rifugiato e dove il lavoro scarseggia persino per gli italiani. Per il regolamento europeo Dublino II, infatti, i richiedenti asilo non possono presentare più di una domanda, e una volta avviate le procedure in uno Stato, l’immigrato non potrà più spostarsi da quel territorio.
Ieri le 200 persone che hanno manifestato contro l’identificazione tramite impronte digitali hanno ottenuto l’impegno, da parte delle autorità italiane, di essere divisi in gruppi e trasferiti in altre città, e oggi anche io mi sento di festeggiare con loro questa grande vittoria in nome della libertà.