Fu il suo esordio, per Feltrinelli, con Le scarpe appese al cuore. Nel racconto della sua gioia la prima volta che riuscì a salire uno scalino c’è l’uomo e lo scrittore: un uomo coraggiosissimo che ha vissuto da malato perenne spandendo allegria intorno a sé; uno scrittore ironico capace di coniugare il senso di un’esistenza al racconto minuzioso della felicità per le piccole cose. Rivendicava, ridendo, che i suoi polmoni erano marci ma il cuore perfetto. Però non si poteva, tecnicamente, trapiantare i soli polmoni e così quel suo cuore perfetto andò nel ventre di un’altra persona, salvandole la vita. Nel frattempo era sceso da nord per finire a Pisa. Qui va a lavorare all’ufficio stampa del Comune. Il più folle ufficio stampa di sempre, di certo il più letterario. A dirigerlo c’era Athos Bigongiali, un raffinato narratore che aveva pubblicato già alcuni libri con Sellerio.
Ecco nascere un singolare sodalizio culturale: la mattina comunicati degli assessorati e discorsi per il sindaco, al pomeriggio letteratura. Ugo, il malato, è inesauribile; Athos, il pigro, non ha nemmeno la patente. Ed eccolo, il trapiantato, alla guida per centinaia di chilometri per portare Athos in giro per l’Italia a presentare i suoi libri. Nel 1998 sono entrambi in finale: Riccarelli al Campiello con Un uomo che forse si chiamava Schulz (Piemme) e Bigongiali al Viareggio con Ballata per un’estate calda (Giunti). Riccarelli sorprende tutti gli amici facendo convivere le pesanti terapie antirigetto (che sapeva gli avrebbero accorciato la vita) e un lavoro letterario matto e disperatissimo. Sempre con un’autoironia disarmante. Amava ricordare che al comune il suo inquadramento era un quarto livello: “a regola io sono quello che dovrebbe fare le fotocopie”. Quando nel 2001 pubblica L’angelo di Coppi, dieci raffinatissimi racconti sulle varie discipline sportive, non sa che fra i suoi lettori che rimarranno folgorati c’è Walter Veltroni.
L’anno successivo Veltroni lo vuole con sé a Roma come suo ghostwriter al Campidoglio. Come sempre Riccarelli rise: “Mi ha assunto dopo venti minuti che mi conosceva, speriamo bene”. Era felice di sbarcare a Roma per poter stare vicino a Roberta, che sposerà. E intanto sforna Il dolore perfetto (Mondadori), che riassume perfettamente nel titolo l’idea che faceva di Riccarelli un grande scrittore: anche la perfezione del dolore rende la vita preziosa. Vinse il premio Strega e per rassicurare gli amici che non si era montato la testa scolpì il seguente commento: “Il mio impegno è stato premiato, essere intervistato da Marzullo è la mia più grande soddisfazione”. Gli ultimi anni sono i più difficili. Il suo corpo così faticosamente tenuto in funzione comincia a cedere. La dialisi un giorno sì e uno no diventa il suo metronomo. Athos, il fratello di lettere e di cuore rimasto a Pisa lo chiama e lo invita alla pigrizia: “Stai buono Ugo, riguardati un po’, che diavolo ci vai a fare fino a Bari per presentare il libro?”. E lui fingendo di non capire: “Oh, io non sono mica come te, io mi do da fare”. E si sbatte in giro tra una dialisi e l’altra per raccontare che la letteratura è la medicina di tutto. Aveva urgenza di portare in libreria il libro sulla madre, il suo modo di chiudere i conti con una vita a due stadi: nascita e sopravvivenza. Si accaniva sulla scrittura e, per giustificarsi e schernirsi, diceva sfottendo i sani: “Ho fretta, ragazzi, non sono mica come voi che avete un sacco di tempo”.
di Marco Filoni e Giorgio Meletti
(Foto Lapresse)
Il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2013