Obbligo di rettifica o equiparazione di piccoli blog a grandi giornali, divieto di anonimato o censura dei commenti. Ad uccidere l’informazione online ci hanno provato e continuano a provarci in tutte le maniere: è ormai da cinque anni che la “legge ammazza-blog” viene riproposta a cadenza ciclica, in forme diverse. La proposta più recente è firmata dal senatore Pdl Salvatore Torrisi: prevede che chi ha registrato un sito internet e semplicemente si connette alla rete per gestire un blog sia responsabile di un reato commesso sul sito; e risponda dello stesso “anche quando non cancelli entro 24 ore dalla pubblicazione scritti inseriti autonomamente dagli utenti“. Il testo, che finalmente è stato pubblicato sul sito ufficiale del Senato, ha confermato tutti i timori sorti ad inizio mese (leggi il blog di G. Scorza). Venisse approvata, non resterebbe che eliminare la facoltà di commentare i contenuti, vista l’impossibilità di controllare in maniera capillare tutte le maglie e le intercapedini di un sito web.
L’ultima versione dell'”ammazza blog”, insomma, è “l’ammazza commenti“. E fa ancora più paura delle precedenti. Dal 2008 il clima di repressione nei confronti dell’informazione web non è migliorato. In principio fu il ddl Levi, varato sotto il governo di Romano Prodi (di cui pure porta il nome), che stabiliva per i blogger l’obbligo di registrazione presso il Registro degli Operatori di Comunicazione (Roc) e l’estensione ai blog dei reati a mezzo stampa. Fu approvata dal Consiglio dei ministri, ma non resistette alla protesta dell’opinione pubblica. Da allora l'”ammazza blog” è diventato oggetto d’interesse soprattutto del centrodestra.
Nel 2009 ci aveva provato Giampiero D’Alia: l’attuale Ministro della Pubblica amministrazione e della Semplificazione nel governo Letta aveva inserito nel decreto sicurezza un emendamento che sanciva “la repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet“, e prevedeva l’oscuramento dei siti, inclusi dunque anche Twitter e Facebook, qualora i contenuti segnalati non venissero rimossi dal gestore. Nulla di fatto, come anche per la proposta della parlamentare di Forza Italia, Gabriella Carlucci, che in un ddl nato per “combattere la pedofilia online” di fatto tentava di eliminare la facoltà di anonimato sul web, stabilendo il divieto di immettere in maniera anonima in rete contenuti in qualsiasi forma.
Nel 2011 e nel 2012 la norma è tornata in aula a distanza di pochi mesi, praticamente nella stessa versione: il comma 29 dell’articolo 1 della “legge bavaglio” (poi ripresa da una nuova regolamentazione del ministro Severino sulle intercettazioni) obbligava alla rettifica tutti i siti informatici a 48 ore dalla segnalazione, pena una multa fino a 12.500 euro. Una rettifica “senza se e senza ma”, dal momento che il testo non concedeva al gestore alcuna facoltà di replica o semplicemente di verifica; per obbligarlo a modificare (o cancellare) i contenuti pubblicati bastava una semplice richiesta da parte dei soggetti lesi dall’informazione riportata. E pazienza che questa potesse rivelarsi vera.
La tregua è durata poco: nel 2013 quattro testi diversi sono stati depositati in poche settimane da esponenti di Pdl, Scelta Civica e Gruppo Misto. L’obiettivo: estendere l’applicabilità dell’intera legge sulla stampa, quella datata al 1948, a tutti i “siti internet aventi natura editoriale”; ossia equiparare tutti i blog, anche i più piccoli, a testate giornalistiche. Fino ad arrivare alla ‘trovata’ del pidiellino Torrisi: che per porre un freno agli “eccessi del web” vuole scaricare la responsabilità penale dei commenti degli utenti (anonimi o meno) sui gestori del sito internet, che si tratti di un blog o di un giornale.
Una “provocazione“, come l’ha definita il diretto interessato. Perché quasi tutti i firmatari si sono sempre schermiti di fronte alle possibili conseguenze – esiziali per il web – dei loro disegni di legge. Persino Laura Boldrini e Pietro Grasso, presidenti delle Camere, sono caduti nella tentazione di chiedere in maniera vaga (e ambigua) un “maggior controllo del web”. E Torrisi al fattoquotidiano.it ha candidamente dichiarato di aver avanzato una proposta tanto radicale “solo per aprire un dibattito su un argomento rilevante”.
“Un vuoto normativo esiste”, come ha sottolineato Caterina Malavenda, avvocato esperto di diritto dell’informazione. Ma servono disegni di leggi scritti con competenza e cognizione di cause ed effetti. Sempre che l’intento sia quello di disciplinarla, e non metterla a tacere. L’unico minimo denominatore di tutti i ddl che si succedono da oltre cinque anni.