La banca centrale cinese ha deciso la settimana scorsa di rimuovere l’interesse minimo sui crediti bancari, cioè di liberalizzarli. Si tratta apparentemente di una notiziola per tecnici della finanza internazionale, ma non ci si deve ingannare: quella appena varata è in realtà una misura su cui si dibatte da anni nonché il segnale che una enorme riforma del sistema economico cinese è in corso d’opera.
Di fatto, la Cina introduce la concorrenza bancaria. Le banche appartengono allo Stato ed è la leadership a stabilire le loro policy, tra cui i tassi d’interesse. Fino a ieri, gli istituti di credito non potevano prestare denaro con interessi inferiori al 70 per cento delle linee guida stabilite quotidianamente dalla People’s Bank of China. Le piccole e medie imprese, sempre più a caccia di liquidità a fronte di un calo delle esportazioni dovuto alla congiuntura internazionale, potevano quindi accedere solo a prestiti piuttosto onerosi.
Ora gli istituti cinesi devono invece competere secondo le leggi di mercato concedendo tassi d’interesse sempre più bassi ai propri clienti. La nuova norma, già entrata in vigore, serve quindi a rilanciare il tessuto industriale del Dragone, perché le imprese a caccia di liquidità potranno ora scegliere la banca che offrirà loro migliori condizioni. È quindi una spintarella a un’economia reale cinese in forte rallentamento, tant’è che a oggi la leadership di Pechino non è in grado di garantire – nonostante un fuoco di fila di dichiarazioni volte a tranquillizzare – che l’obiettivo di crescita stabilito a inizio anno, il 7,5 per cento, sarà mantenuto.
Certo, una liberalizzazione più complessiva dei tassi d’interesse avrebbe avuto conseguenze di ben altra portata. La leadership cinese ha scelto invece di non abbattere, almeno per ora, il limite massimo imposto agli interessi sui depositi bancari. Il fatto che i soldi che lasci in banca ti restituiscano interessi irrisori, che diventano addirittura negativi al netto dell’inflazione, spinge infatti i cinesi qualunque – a caccia di sicurezza finanziaria per il futuro – a investire i propri risparmi nelle più varie bolle speculative, tra cui quella immobiliare è la più nota (ma ne esistono di svariate, dalle opere d’arte al vino d’alta gamma). Pechino, secondo costume, procede però con cautela.
Il sentiero che la nuova misura ha cominciato a tracciare è infatti rischioso. Senza la garanzia di un interesse minimo e lanciate nel mare magnum della competizione, le banche saranno costrette a trovare nuove fonti di finanziamento. Uno studio di ChinaScope – società di ricerca con sede a Shanghai – dice che saranno costrette a trovare tra i 50 e i 100 miliardi di dollari nei prossimi 2 anni per mantenere una riserva adeguata di capitali.
Andranno dunque verso la “finanza creativa” che dall’altra parte del mondo ha prodotto la crisi dei mutui subprime, poi estesasi ovunque? In quell’occasione la Cina ha guardato, studiato, subìto (la contrazione dell’export verso un Occidente in crisi), accusato più volte Washington e Wall Street di giocare con il soldi altrui e giurato a se stessa di non fare a stessa fine.
Il timore è acuito dal fatto che dietro al credit crunch che a fine giugno ha colpito il prestito interbancario cinese sembra che ci fossero proprio pratiche disinibite delle maggiori banche, costrette a impacchettare e reimpacchettare “creativamente” debiti e crediti perché strozzate nella propria liquidità dai bad loans, i prestiti che finiscono nel buco nero della speculazione e non tornano più indietro. Come a dire che se apri uno spiraglio alla finanza tossica, quella attecchisce anche in Cina in un battito di ciglia. Prima di liberalizzare “tutto”, il Dragone deve quindi mettere a punto un sistema di monitoraggio e di assicurazione che al momento ancora non ha. Deve sentirsi al sicuro.
di Gabriele Battaglia