La Banca Popolare di Vicenza, acquistata la Cassa di Risparmio di Prato, sta trasferendo in Veneto i quadri della sceltissima raccolta messa insieme dalla banca toscana: tra i quali una Crocifissione, da urlo, di Giovanni Bellini, in cui, vedi il destino, proprio il Duomo di Vicenza fa la parte del Tempio di Erode.
A Prato è scoppiato un putiferio: perché dopo esser stati sconfitti negli amatissimi affari, ora ci si sente spogliati pure dell’identità, in una specie di colonialismo predatorio intra-nazionale che è solo all’inizio.
Di qui proteste pubbliche, interrogazioni parlamentari, invocazioni all’altrimenti sempre vituperato Ministero per i Beni culturali.
Ora, un rimedio ci sarebbe: e la decisione spetta alla Soprintendenza di Firenze, Prato e Pistoia (non quella del Polo Museale, che si balocca con mostre inguardabili con titoli da centro benessere – Bagliori Dorati, Diafane Passioni, Lusso ed Eleganza, Nello Splendore Mediceo – e con tariffari che svendono il patrimonio pubblico, ma quella architettonica, cui dal 2008 tocca, assurdamente, di tutelare i beni mobili di Prato e Pistoia).
La soprintendente Alessandra Marino ha dichiarato che si può solo occupare «di assicurare che le opere rimangano in Italia»: ma in realtà potrebbe anche ancorare la collezione a Prato con il cosiddetto vincolo pertinenziale, cioè con la prescrizione che la collezione non sia smembrata e non si sposti dal palazzo storico con il quale ormai forma un tutt’uno nella percezione della città.
Il presidente della Toscana Enrico Rossi ha dichiarato che, tra i pratesi e quella collezione, esiste «un rapporto di identificazione che è parte integrante del contenuto stesso delle opere che, strappate dal loro contesto storico e culturale verrebbe inevitabilmente meno».
Ed è esattamente questo che consentirebbe alla soprintendente Marino di emettere il vincolo: il Codice dei Beni Culturali non contempla solo la possibilità di tenere unite le collezioni di antica formazione, ma anche quella di tutelare: «le cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose» (articolo 10, comma 3, lettera d). È questione di ‘visione’: una tutela che non guardi solo al ‘bene’ da tutelare, ma al suo rapporto vivo con la comunità attuale, deve saper avere il coraggio di sfidare interessi forti in nome di quel rapporto, così prezioso e così carico di futuro.
Ma, comunque vada a finire, la storiella estiva è assai istruttiva.
Perché ci ricorda brutalmente che nonostante tutta la retorica del privato-amico-del-patrimonio-pubblico i privati fanno sempre l’interesse privato: inutile aspettarsi sollecitudine o cura per l’interesse di una comunità. Specie in tempo di leghismo culturale e rottura della solidarietà nazionale.
Ci sarà pure un motivo se un’evoluzione secolare ha affidato, in Italia, la tutela e la gestione del patrimonio pubblico allo Stato, cioè a tutti noi. Ci sarà un motivo per cui un museo civico è meglio della raccolta di una banca.
Chi può garantire il nostro interesse meglio di noi stessi? Perché dovrebbe farlo qualcuno il cui (legittimo) scopo è solo quello di guadagnare denaro e conquistare potere?
La prossima volta che un editorialista, un politico o una sottosegretaria qualunque faranno il loro fervorino sulle virtù civili del Privato… mandateli.
A Prato.