La coperta economica non è mai stata così corta in Italia.
Ogni riduzione di tasse – per esempio l’abolizione dell’Imu sulla prima casa oppure il non aumento dell Iva – cozza con le insostenibili spese dello stato; qualsiasi intervento per il drammatico problema della disoccupazione o per risolvere un po’ più sensatamente la questione degli esodati viene reso problematico dalla mancanza di risorse. Insomma, più che un rompicapo l’attività di chi deve far quadrare i conti e risolvere i problemi, ridurre il debito e far ripartire il paese, sembra una ‘mission impossible’.
In effetti che non si uscirà da questa situazione senza dolori credo sia ormai chiaro anche alle pietre; il problema è definire i criteri con i quali i dolori saranno distribuiti, essendo anche assai palese che le misure efficaci possono essere solo quelle che incidono su grandi numeri, grandi voci di spesa e, purtroppo quindi, grandi masse di cittadini.
Quando si toccano le pensioni, se si vuole andare oltre la demagogia di facciata, si vanno a toccare le pensioni medio basse; quando si guarda ai costi della amministrazione dello stato si mettono sotto la lente oltre tre milioni di dipendenti pubblici, quando si parla di reddito di cittadinanza e di platea dei esodati, si devono fare ipotesi su altri milioni di persone; pertanto, dato che la coperta è corta, qualcuno resterà scoperto.
Salvo ipotizzare che la ricchezza – sempre meno – prodotta venga suddivisa in parti eguali tra i cittadini, il che probabilmente azzererebbe in pochi anni la poca ricchezza residuamente prodotta, occorrerà fare delle scelte; non si concilia il reddito di cittadinanza con la riduzione delle tasse e con il mantenimento della struttura dello stato così com’è; continuare a provarci significa buttare via un tempo che non è più disponibile.
Dando per scontato che, arrivati di fronte a un muro altrimenti insormontabile, anche i più renitenti alle decisioni si trovino costretti a prenderne obtorto collo e a scontentare qualcuno, si tratti di corporazioni o di basi elettorali o di strati sociali, sarà interessante vedere quali saranno i criteri che ispireranno le scelte ed è anzi qui che potrebbe giocarsi la possibilità di ripartire e restare tra le nazioni avanzate, contrapposta a un tracollo più o meno veloce.
Un criterio potrebbe essere quello di mantenere corporativamente inalterata la struttura di stato, regioni, province e comuni insieme a tutti i loro servizi più o meno ben erogati e la forma e sostanza dell’attuale sistema assistenziale; ciò comporta, fatte salve poche misure cosmetiche, il mantenimento del livello di spesa attuale e quindi l’impossibilità di ridurre le tasse e/o di spendere per risolvere alcuni problemi quale quello,di misura gigantesca, del reddito di cittadinanza.
Per uscire da questo impasse si potrebbe mettere nuovamente mano al bancomat della previdenza andando a tagliare le pensioni, anche quelle acquisite. Ma dolorosamente, perché tale manovra abbia una sua efficacia, occorrerebbe ridurre anche le pensioni medio basse perché altrimenti si farebbe una operazione – solo sulle pensioni elevate – il cui ritorno economico sarebbe risibile. Alternativamente si potrebbe tagliare drasticamente la gratuità del sistema sanitario, ma di nuovo, affinché ciò abbia un significato economico, bisognerebbe togliere gli esoneri dai ticket anche ai redditi medio/bassi in quanto numericamente rilevanti.
Non facendo niente di tutto questo non restano che altre tasse, su cittadini e imprese, anche qui con la precisazione che per avere ulteriori gettiti significativi bisogna tassare di più anche i redditi medio bassi, più numerosi. Come detto più sopra non se ne esce senza sangue sudore e lacrime.
Ma se sangue, sudore e lacrime hanno da essere, si potrebbe almeno pretendere che il criterio da adottare prioritariamente sia quello della eliminazione di privilegi?
Qui si entra nel terreno minato della definizione di privilegio: per alcune correnti di pensiero privilegiato è chiunque goda di una ricchezza più o meno grande, indipendentemente dal se l’abbia realizzata con onesto lavoro o meno, per altri è privilegiato chi goda di rendite non commisurate al merito, impegno e intraprendenza che lo hanno generato. Per intendersi meglio, alcuni ritengono che il diritto al lavoro più o meno sancito dalla nostra costituzione giustifichi la creazione di posti di lavoro ancorché inutili, che la previdenza debba elargire pensioni più o meno equivalenti indipendentemente dalla contribuzione e che il patrimonio debba essere molto tassato indipendentemente dal fatto che sia stato onestamente accumulato o meno.
Altri ritengono che la costituzione di posti di lavoro fittizi destinando risorse comuni a beneficio di pochi dia a questi ultimi un beneficio soggettivo e sia contraria al principio di equità, che la previdenza debba essere guardata come un sistema assicurativo nel quale ciascuno riceve in proporzione a quanto ha contribuito e che il patrimonio frutto di risparmi a valle di una giusta tassazione progressiva sia da guardarsi con rispetto.
La mia opinione è che seguendo il primo modo di intendere si accentui quanto ha contribuito in prima istanza a portarci dove siamo, giustificando maggiore prelievo di risorse da parte dello stato e scoraggiando a intraprendere; il risultato è con grande probabilità maggiore povertà, più distribuita, ma pur sempre maggiore povertà.
I segnali che provengono dal mondo della politica in questi giorni lasciano pensare che proseguiremo sulla strada percorsa negli ultimi decenni; il taglio dei finanziamenti ai partiti viene respinto anche, in modo probabilmente strumentale, con la motivazione che ci sono dei posti di lavoro da difendere; stessa motivazione che ricorre quando si parla di abolizione delle province; l’aria che tira sull’Imu suona di aggravio complessivo tramite la riforma del catasto, l’aumento della tasse sulle seconde case e l`incremento generalizzato delle aliquote da parte di tutti i comuni; le accise sulla benzina aumentano. Dulcis in fundo: la corte costituzionale ha bocciato, come già fatto per l’accorpamento delle province, alcune misure deterrenti alla spesa facile nelle regioni.
Maggiori tasse, spesa dello stato casomai in crescita, impieghi privilegiati continuati, controllo della spesa pubblica che resta precario. Non tira una bella aria.