L’opinione diffusa vuole che Carsten Schloter fosse un grande manager e forse è vero. Certamente era un uomo di grande successo con alle spalle una sequela di trionfi. CEO di Swisscom era uno dei più influenti manager europei nel settore delle telecomunicazioni. Scuole esclusive, giovane, atletico, dedito a sport estremi, un curriculum professionale che rapidamente l’aveva portato ai vertici di una delle più importanti aziende europee. Retribuzione da favola, ma anche – secondo i giornali – grandi capacità, visioni innovative, perfezionista e di grande libertà intellettuale. Insomma l’uomo ideale. Peccato che «improvvisamente, incomprensibilmente» abbia deciso di mettere fine alla propria vita. Una somma di vittorie che sono finite in un disastro. Qualcosa non torna.

Ovviamente di fronte alla morte ci inchiniamo e il caso singolo non ci interessa. Ci interessa però – e molto – il caso generale. Ci interessa capire come può accadere che il trionfo professionale conviva con il fallimento personale; come le logiche aziendali possano essere il contrario delle logiche umane, come tra la gestione di un’azienda e l’attaccamento alla vita non solo non ci sia convergenza, ma debba esserci contrasto; come accada che venga chiamato a decidere del destino di migliaia di persone un uomo (o una donna) incapace di gestire uno che sia uno dei suoi diretti rapporti interpersonali e infine come il fallimento personale possa essere l’espressione di un individuo dotato di doti eccezionali.

«Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto» (Lc 16, 12). La capacità di gestire e risolvere i propri affari deve essere il prerequisito all’ambizione a gestire la vita altrui. Mettere la vita di migliaia di persone nelle mani di uno che affoga davanti ai suoi elementari problemi quotidiani (che sono poi quelli che contano e come si vede qualificano tutto il resto)? Può forse portare a risultati seri e duraturi una logica aziendale separata e in contrasto con la logica umana?

Ormai non sono pochi gli osservatori attenti che hanno compreso come nel campo del business un conto siano le «imprese» (imprenditore), un altro le «ditte» (dittatura); le prime in genere hanno collaboratori, le seconde dipendenti; le prime sviluppano idee, le seconde cercano solo profitti. Ma non basta. Dobbiamo essere più radicali. Tutti dobbiamo incominciare a porgerci nuovamente l’antica domanda che fu già di Ronald Coase: «perché esiste l’impresa?» Perché gli Stati, le leggi devono consentire, regolare e in molti casi favorire la costituzione e lo sviluppo delle imprese? Perché non potrebbe essere che ognuno si crea il proprio guadagno da solo, senza altri che detengano i mezzi di produzione? Solo per offrire la possibilità a pochi individui di fare straordinari guadagni? Per tenere buona la gente?

Non c’è dubbio che l’interesse generale, e solo quello, garantisca e fondi l’esistenza delle imprese. Tutti traggono vantaggio dall’esistenza delle imprese, come appunto ha dimostrato Coase. Il vantaggio personale tuttavia si ricava all’interno di un più ampio e generalizzato vantaggio generale. Il benessere collettivo, l’aumento della ricchezza morale e materiale della popolazione è l’unica ragione che può fondare l’esistenza delle imprese e il loro riconoscimento pubblico. Quindi non può esserci impresa là dove l’individuo – sia esso un manager o l’ultimo degli operai – debba soccombere in nome della logica aziendale. La filosofia dell’impresa del futuro non prevede la morte tra i suoi target.

 

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