Quello spagnolo è un incidente di eccezionale gravità, secondo in Europa nei decenni scorsi solo a quello dell’alta velocità tedesca che alla fine del secolo scorso costò 107 vittime. Sembrerebbe trattarsi di un errore umano da eccesso di velocità in una curva all’ingresso di una stazione, analogamente a quanto successe in Italia a Piacenza con un Pendolino, ma che allora fece meno vittime. Il macchinista intervistato a Compostella sarà certamente stato in condizioni di shock, ma tutti gli indizi sembrano contro di lui.
Occorre dedurne che le ferrovie spagnole sono insicure? Per ogni incidente, su qualsiasi modo di trasporto, la reazione giornalistica tende a sollevare questo dubbio, a volte anche correttamente.
Ma vi è un unico modo serio per valutare la sicurezza, e quindi le cose che bisogna davvero fare, e non è certo l’emozione e il lutto, ma le statistiche, sia per modo di trasporto, che per paese, che nell’arco del tempo. Le ferrovie spagnole sembrano statisticamente molto sicure, come tutte le ferrovie dei paesi sviluppati. Certo sono più sicure, ovunque, del modo dominante, che è quello stradale. In Europa parliamo di un centinaio di morti all’anno contro molte decine di migliaia. Certo la sicurezza statistica deve tener conto anche del numero degli eventi cui ci si riferisce (il traffico stradale è 10 volte maggiore), ma la ferrovia vince sempre, anche per la semplice ragione tecnica che vi è un solo grado di libertà (lungo una linea) mentre la strada ne ha due (si può sterzare), e l’aereo tre (si può cambiare anche quota).
E la sicurezza statistica nei trasporti è aumentata in modo spettacolare nell’ultimo decennio, soprattutto per il trasporto stradale (vittime dimezzate) e in quello aereo (vittime ridotte a un decimo). Paradossalmente, in ferrovia aumentare ancora una sicurezza già altissima è difficilissimo, ed è estremamente costoso per le (esauste) casse degli stati, come lo è sempre quando si cerca di migliorare qualcosa che funziona già molto bene (per esempio, abbattere le emissioni di una macchina già poco inquinante).
Si è detto che se ci fosse stato un sistema di ripetizione in macchina dei segnali della linea (i limiti di velocità in quel punto), forse l’incidente poteva essere evitato. Ma questo ovviamente comporterebbe l’estensione all’intera rete spagnola di quel dispositivo, con costi pubblici enormi, per un numero di incidenti comunque piccolissimo. E se poi succedesse invece un incidente tipo Viareggio (rottura di un asse)? Non ci possono essere risposte emotive: le vite umane hanno tutte lo stesso valore, e le risorse pubbliche vanno indirizzate là dove per ogni Euro speso vi sono più vite statistiche salvate, e cioè per rendere più sicuri i modi di trasporto più pericolosi. Questo approccio tra l’altro è sempre vero, e vale in molti settori dell’azione pubblica (sanità ecc., ma anche sicurezza domestica, o sul lavoro).
Rimane vero che l’impatto psicologico di incidenti in cui gli utenti si affidano per essere trasportati ad un soggetto terzo è maggiore che non nel settore stradale, in cui generalmente i veicoli sono spesso guidati dagli stessi che provocano gli incidenti. Ma, di nuovo, le vite umane hanno tutte lo stesso valore, e nel settore stradale lo straordinario aumento di sicurezza che si è riscontrato in questi hanni è in buona parte dovuto al miglioramento dei veicolo (airbag, pneumatici, sitemi frenanti, cinture, ecc.), che non sono a carico dello stato. Va dunque anche considerato chi paga per la sicurezza, per ovvie ragioni di equità. Per esempio, è giusto impiegare molte risorse pubbliche per soccorrere chi pratica sport pericolosi, o chi si ammala in seguito a comportamenti autolesionistici (fumo ecc.)? Ma il discorso è certo complicato, e merita un dibattito adeguato, non queste poche righe.
Per concludere, comunque, sembra necessario per agire efficacemente non isolare il problema sicurezza in un singolo settore, ma affrontarlo in un’ottica globale, soprattutto se le risorse pubbliche sono scarse come lo sono drammaticamente ora.