Cinque milioni di persone in Italia sono povere. Il dato dell’Istat è arrivato nel giorno in cui più di duecento economisti provenienti da tutto il mondo si sono incontrate per fare il punto sul nesso causale tra disuguaglianze sociali e crisi. Il tema è stato sviscerato nei giorni scorsi a Bari in una tre giorni di dossier, analisi e proposte in occasione della riunione biennale della Ecineq, associazione internazionale che riunisce esperti di economia pubblica e analisi delle disuguaglianze economiche.
Il ritorno delle disuguaglianze. Secondo uno studio Ocse del 2012 dalla fine degli anni settanta fino alla crisi economica del 2008 il reddito disponibile delle famiglie nei Paesi dell’area è cresciuto in media dell’1,7% annuo, ma non tutti sono saliti allo stesso ritmo. C’è stata una crescita più forte per le code alte della distribuzione e più debole per i percettori di redditi bassi. Il primo effetto di questa “crescita regressiva” è oggi una distribuzione dei redditi che nei Paesi europei, così come nella generalità dei Paesi Ocse, risulta molto più disuguale rispetto a quella degli anni ‘80. Con riverberi precisi in termini di benessere collettivo e soprattutto sui processi democratici di regolazione del mercato: la concentrazione di potere economico in percentuali progressivamente più piccole della popolazione riporta, per alcuni Paesi, le lancette della storia indietro di quasi un secolo.
Il caso italiano. I recenti dati Istat fotografano con preoccupazione lo spaccato italiano, con il 15,8% delle persone in povertà relativa (9 milioni 563mila), quelle in povertà assoluta l’8% (4 milioni 814mila). Tra il 2011 e il 2012 aumenta sia l’incidenza di povertà relativa (dall’11,1% al 12,7%) sia quella di povertà assoluta (dal 5,2% al 6,8%) in tutte e tre le ripartizioni territoriali. L’aumento della povertà non dipende solo dalla caduta del reddito nazionale: dipende anche dall’aumento delle disuguaglianze. Ovvero quel triangolo maledetto “povertà-disuguaglianza-crescita” che occorre analizzare e smontare con attenzione per comprendere l’evoluzione recente. E dare un nome e un volto alle ragioni della crisi in atto.
Le cause. L’aumento delle disuguaglianze negli ultimi due lustri ha una serie di spiegazioni. In primis la globalizzazione dei mercati e il cambiamento tecnologico, due fattori che hanno generato un progressivo aumento dei divari salariali tra diverse tipologie di lavoratori. L’aumento dei redditi da capitale legato ad un aumento delle transazioni finanziarie è un’altra delle spiegazioni possibili. In ultimo la politica e le politiche, spiega il professor Vito Peragine, presidente del comitato organizzatore del meeting e docente di Scienza delle finanze nell’Università di Bari: “Gli scorsi decenni si sono caratterizzati per un forte indebolimento della capacità e della volontà redistributiva del settore pubblico. Sia sul fronte della regolazione dei mercati, quindi sul piano di una riduzione ex ante dei divari reddituali, sia in termini di redistribuzione ex post mediante le politiche tributarie e di assistenza sociale, si è ridotto l’impatto redistributivo del settore pubblico”.
L’inizio del corto circuito. Ma dove inizia il corto circuito? Secondo il professor Francisco Ferreira, economista del Centro Studi della Banca Mondiale, stiamo consumando molte più risorse naturali di quelle “che il pianeta potrebbe permettersi”, per cui il primo tema all’ordine del giorno dovrebbe essere il climate change, anche se ciò “non ha nulla a che vedere con la crisi economica in cui ci troviamo, ma con la sostenibilità nel lungo periodo dell’attuale modello di sviluppo”. L’eurocrisi ha avuto inizio negli Usa, con l’aumento del prezzo delle abitazioni al di sopra del valore effettivo che ha portato alla bolla speculativa. E in Europa quanto terreno fertile ha trovato? Moltissimo, sostiene Ferreira, a causa della “debolezza del sistema bancario europeo e dell’esistenza di cambi fissi all’interno del sistema euro”.
Il fatto di avere una sola moneta per un’intera area come quella europea ha una serie di vantaggi, riflette Ferreira, come la facilità di scambi, di commerci ma anche movimento di persone oltre che di capitali. Ma a fronte di tutto ciò c’è un prezzo da pagare, ovvero “aver perso una straordinaria opportunità di crescita economica: la possibilità di svalutare”. Quando un Paese accusa un’altissima disoccupazione uno dei modi per difendersi è appunto la svalutazione, “per cui in caso di choc che interessano un singolo Paese, come il rischio default per la Grecia, la svalutazione sarebbe utile solo per quel Paese”.
Grexit. In caso di Grecia fuori dall’eurozona, Atene “perderebbe tutti i benefici conseguenti, il sistema potrebbe certamente sopravvivere, ma il tema sarebbe un altro: in caso di uscita di uno stato membro in difficoltà come quello greco, se ne aggiungerebbe immediatamente il primo più in crisi degli altri e verrebbe meno il progetto politico dell’Ue”. Fare come l’Argentina? “Non sarebbe la stessa cosa, perché Buenos Aires, a differenza di Atene, non è membro di una comunità di stati dotati della stessa moneta”. Per cui, conclude Ferreira, una soluzione plausibile al caso ellenico è quella proposta due anni fa dal premio Nobel per l’economia Christopher Pissarides, docente alla London School of Economics che per primo lanciò l’idea di un default controllato: ovvero un’uscita, morbida e programmata, dall’eurozona. Ma allora nessuno appoggiò la sua idea e, oggi, “sarebbe troppo tardi”.
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