Dopo due anni e mezzo di rivoluzioni, il Paese sembra aver smarrito la strada verso la democrazia. Le violenze della Fratellanza hanno riabilitato l'esercito, che resta "l'istituzione più popolare". E giorno dopo giorno cresce il consenso nei confronti del generale El Sisi
Ancora un Paese diviso sugli slogan, nella bandiere e nei leader. Ma ce n’è uno che svetta su tutti. Nel terzo venerdì di ramadan, centinaia di migliaia di egiziani sono scesi per le strade per l’ennesima volta contrapposti: tra i sostenitori del deposto presidente Morsi e i suoi oppositori, che quasi un mese fa, il 30 giugno, avevano dato vita a una delle manifestazioni più grandi della storia del Medio Oriente. Al Cairo gli Ikhwan si sono radunati con decine di marce alla moschea di Rabaa el Adaweya, ormai luogo simbolo della protesta islamista, mentre a piazza Tahrir centinaia di migliaia di persone hanno accolto l’invito del capo delle forze armate, il generale El Sisi, a difendere la nuova transizione e lottare contro il “terrorismo fatto dalla Fratellanza”. E il bilancio degli scontri è tragico: almeno 75 morti e mille feriti.
Lo storico luogo della rivoluzione che in questi due anni e mezzo ha visto diverse fasi, passando dalle proteste anti esercito a quelle pro Morsi per poi chiederne le dimissioni un anno dopo, si è trasformato in un enorme bacino di consenso per il capo delle forze armate: ovunque si guardi c’è il volto di El Sisi, che nel nuovo governo a interim ricopre anche la carica di ministro della difesa e di vicepresidente. Sui poster portati a mano dai manifestanti, stampato sulle t-shirt, o appeso sui grandi striscioni ai palazzi che sovrastano la piazza. “E’ un uomo credibile e in queste tre settimane di violenza solo lui può salvarci dal terrorismo dei Fratelli Musulmani“, dice Ossayma, una studentessa che ha preso parte alla rivoluzione nel 2011 contro Mubarak e ora è di nuovo in piazza per sostenere i militari.
L’aumento repentino di popolarità di El Sisi e dei militari – riabilitati in pochissimo tempo dopo 16 mesi di governo autoritario e di rivolte represse nel sangue dopo le dimissioni di Mubarak – sembra essere il caro prezzo che i partiti laici e liberali stanno pagando dopo aver chiesto l’appoggio dell’esercito per contrastare l’autoritarismo dei Fratelli Musulmani. La nuova road map tracciata dopo la deposizione di Morsi e appoggiata dalla maggior parte della autorità politiche e religiose del paese si sta già rivelando un’arma a doppio taglio per il Fronte di Salvezza Nazionale e per gli stessi Tamarrod, che con 23 milioni di firme contro Morsi avevano indetto la manifestazione del 30 giugno. “Nonostante i crimini commessi dal Consiglio Supremo delle Forze Armate dopo la rivoluzione, l’esercito resta l’istituzione più popolare del paese – spiega Gennaro Gervasio, professore di storia del Medio Oriente alla British University of Cairo. “In questo anno di governo dei Fratelli Musulmani, i militari hanno sempre parlato di sicurezza e stabilità, promesse che Morsi invece non è riuscito a mantenere. Inoltre El Sisi è riuscito a convincere di nuovo gli egiziani con lo slogan ‘l’esercito e il popolo una mano sola’, ma in una chiave meno autoritaria del suo predecessore Tantawi”.
Alcuni movimenti come il 6 aprile e i Socialisti Rivoluzionari, i pilastri della rivoluzione egiziana, si sono dissociati dalla manifestazione di oggi e hanno indetto un sit-in in una terza piazza del Cairo ma con una presenza esigua. Per i partiti laici, che rischiano per l’ennesima volta l’emarginazione dalla vita politica del paese a scapito dei membri dell’ex regime, sembra essere troppo tardi. Non ci sono più vie di mezzo – o Morsi o El Sisi – in un Paese smarrito sulla strada verso la democrazia.