L’ultimo arrivato è il presidente del Gambia, Yahya Jammeh: ha appena varato una legge che infligge pene fino a 15 anni per “colui che ritrae con una caricatura le autorità”. Vale anche per lui la massima di Zulfiklee Anwar Ul, vignettista malese che da trent’anni denuncia con la sua matita affilata la corruzione del governo: “Mi possono incarcerare, possono censurare i miei disegni, ma non possono fermare una risata”. In Malaysia, per non sbagliare, mettono il bavaglio a tutto ciò che può disturbare. Nel 2007 il governo decise la chiusura per un mese del Makkal Osai, un quotidiano in lingua tamil, colpevole di aver pubblicato una vignetta blasfema in cui appare Gesù che fuma e beve birra. La cosa non fece notizia (in assenza di masse cattoliche pronte alla rivolta sulla scena internazionale).
La stessa mano dura, due anni prima, la usarono contro i giornali che avevano riprodotto le vignette del danese Jillands-Posten, sul quale Kurt Westergaard disegnò un profeta Maometto con il capo avvolto in un turbante a forma di bomba con la miccia accesa. Nei tumulti che seguirono a scoppio ritardato (solo 5 mesi dopo la pubblicazione, nel febbraio 2006, a seguito delle dichiarazioni incendiarie dell’imam di una moschea di Copenaghen e dello sheikh Yusuf Qaradawi, potentissimo grazie al suo sermone diffuso da Al Jazeera) vennero uccise più di 50 persone in diversi paesi islamici.
Scampato a diversi attentati, Westergaard si ribella: “L’Occidente non può lasciarsi mettere la museruola per paura di offendere le sensibilità islamiche”. La stessa posizione che, da sempre, sostiene Reporters sans Frontières: “La libertà d’espressione dev’essere difesa di fronte a chi tenta di imporre il terrore e il silenzio”.
Eppure, sembra che, alla fine, i radicali abbiano sempre la meglio. Persino un’editoriale prestigiosa come la Yale Press si è rifiutata di pubblicare quelle stesse vignette in un libro accademico dal titolo “The cartoons that shook the world”. Che appunto di quello trattava: di satira, censura e violenza.