Il dito ha completamente sostituito la luna. La chiacchiera politica, la ricerca dei retroscena, il dibattito sull’opportunità di una assoluzione o di un rinvio, le contese sulla data della prescrizione, le proteste contro le “toghe rosse” di primo grado e d’appello hanno fatto dimenticare la vera materia del contendere, e cioè la sentenza della Corte d’appello di Milano (giudici Alessandra Galli, Elena Minici, Enrico Scarlini) che l’8 maggio 2013 ha confermato la condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale: 4 anni di carcere (di cui tre coperti dall’indulto del 2006).
È questa condanna che la Cassazione è oggi chiamata a rendere definitiva oppure a cancellare, con annessa pena accessoria, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici, che potrebbe far scattare l’espulsione del condannato dal Senato, dopo la dichiarazione di decadenza della Giunta per le immunità. Ecco dunque in queste pagine i fatti, come sono raccontati nella sentenza, che ritiene provato al di là di ogni ragionevole dubbio che Berlusconi, quando già era in politica e formalmente non più al vertice delle sue società, ha nascosto cifre imponenti al fisco italiano e agli altri azionisti di Mediaset. La condanna riguarda “solo” 7,3 milioni di euro, occultati negli anni 2002 e 2003. Altri 6,6 milioni riguardano il 2001 e sono stati cancellati dalla prescrizione già prima della sentenza d’appello. Ma in totale, scrivono i giudici, “le maggiorazioni di costo realizzate negli anni” sono di ben “368 milioni di dollari”. Rase al suolo dalla prescrizione anche le imputazioni di falso in bilancio e appropriazione indebita, in un processo durato 6 anni solo per il primo grado (compresi i 2 di ibernazione per i “lodi” Schifani e Alfano). Prescrizione dimezzata (da 15 anni a 7 e mezzo) grazie alla legge ad personam ex Cirielli. Quanto a una contestata frode fiscale da 120 miliardi di lire di imposte evase, è prosciugata quasi interamente dai condoni fiscali. Molti documenti utili a ricostruire i passaggi dei soldi tra le società offshore di Berlusconi, comunque, erano già svaniti durante le prime perquisizioni ordinate dai pm milanesi: “Quindici anni di carte”, secondo la teste Silvia Cavanna, “furono fatte sparire da Lugano in Lussemburgo, credo con camion”. Eppure, ecco che cosa è stato possibile ricostruire.
IL SISTEMA
I diritti televisivi venivano acquisiti sul mercato internazionale dalla Fininvest prima, da Mediaset poi, attraverso il medesimo meccanismo. A comprare dai produttori stranieri era una società del comparto estero e riservato del gruppo, che poi li rivendeva ad altre società, fino all’approdo finale. Nei passaggi, il prezzo lievitava; venivano così “creati costi fittizi destinati a diminuire gli utili del gruppo e quindi le imposte da versare all’erario”.
“Fin dalla seconda meta degli anni ’80 il gruppo Fininvest aveva organizzato un meccanismo fraudolento di evasione, connesso al cosiddetto ‘giro dei diritti televisivi’. I diritti di trasmissione televisiva, provenienti dai produttori, venivano acquistati da società del comparto estero e riservato di Fininvest, venivano sottoposti a una serie di passaggi infra gruppo, o con società solo apparentemente terze, giungevano poi a una società maltese che, infine, li cedeva alle società emittenti. I passaggi erano funzionali solo a una artificiosa lievitazione di prezzi. Del resto gran parte delle società intermedie erano prive di una reale struttura commerciale. Prova ne era che l’originaria acquisizione dei diritti era operata direttamente dalla struttura di Reteitalia prima e di Mediaset poi, che faceva capo a Bernasconi e ai suoi collaboratori. Una struttura che riceveva le richieste degli addetti commerciali delle reti e si avvaleva, in particolare, della consulenza tecnica dell’imputato Lorenzano che procedeva alla trattativa per gli acquisti con le majors o altri fornitori. Nessuna funzione svolgevano invece le società del comparto estero che figuravano come prime acquirenti.
Il sistema rimaneva riservato, per ovvie ragioni, anche all’interno del gruppo Fininvest, interessando un numero il più esiguo possibile di persone. Il contratto originario di acquisto, definito ‘master’, dopo essere stato sottoscritto, spesso da un mero fiduciario, quale, per esempio, l’imputato Del Bue, non veniva reso pubblico, nemmeno all’interno della struttura Reteitalia-Mediaset. (…) Avvicinatasi la data di prevista decorrenza, si procedeva alla stipulazione dei cosiddetti ‘subcontratti’, di solito per periodi frazionati rispetto a quelli del contratto iniziale. I subcontratti venivano preparati dalla struttura svizzera di Fininvest Service s.a., sulla base delle indicazioni fornite da Bernasconi, recepite dalla incolpevole Cavanna”.
Venivano allora preparate, sempre dalla struttura di Fininvest Service, delle schede, solitamente composte da tre pagine, delle quali la seconda, con l’indicazione dei prezzi, veniva mantenuta presso la sede di Fininvest Service, mentre a Milano venivano inviate solo le schede contenenti le informazioni utili per la programmazione (…). Dal1995 il sistema si modificava. Scomparivano generalmente i passaggi infra-gruppo, e i diritti venivano fatti intermediare da società che apparivano terze, venivano ceduti alla società maltese International Media Service Ltd (di seguito per brevità Ims) che, a sua volta, li cedeva a Mediaset, rimanendo immutato il meccanismo di lievitazione dei prezzi. Il tutto aveva comportato un’evasione notevolissima per le somme individuate in imputazione”.