Un’indagine “gonfiata” per intimorire le vittime prescelte, creare attorno a loro “un clima di terrore” e scucire decine di migliaia di euro dietro la minaccia di vedersi sequestrare altrimenti l’azienda o di finire “sbattuti in galera”. È la condotta dei due carabinieri del Noe di Bologna descritta dal tribunale di Bologna in merito al caso Niagara. Sergio Amatiello e Vito Tuffariello, marescialli del nucleo operativo ecologico, sono stati condannati in primo grado per tentata concussione ai danni dell’azienda di Poggio Renatico, nel ferrarese, attiva nel settore di smaltimento rifiuti, che dal febbraio al dicembre del 2008 finì sotto le loro poco premurose attenzioni. Con loro coimputato era Marco Varsallona, all’epoca dei fatti dirigente dell’Unione industriali felsinea, che con i due militari era in procinto di costituire una società di consulenza proprio in materia ambientale.

Il caso nacque dalla denuncia del legale rappresentante della Niagara, Mauro Carretta. I due militari, il maresciallo Sergio Amatiello e il carabiniere Vito Tufariello, in concorso con Varsallona, indussero Carretta – attraverso pressioni ed intimidazioni sui funzionari dell’azienda – a promettere loro una somma di denaro tra i 20 e i 40mila euro per “ammorbidire” gli effetti dell’indagine a carico suo su presunte violazioni delle normativa in tema ambientale. In pratica avrebbero prospettato ai vertici dell’azienda che, pagando, avrebbero salvato gli impianti dal sequestro e loro stessi dalle misure cautelari. Il versamento della tangente però non ci fu: Carretta (‘microfonato’, d’accordo con il reparto investigativo dell’Arma di Ferrara) fece un primo incontro con Varsellona, durante il quale pattuì la somma: secondo l’accusa però i due carabinieri mangiarono la foglia e il versamento saltò. Subito dopo Carretta denunciò i militari. Di qui l’ipotesi di concussione solo tentata e non consumata.

Il tribunale collegiale, presieduto dal giudice Zaccariello, condannò lo scorso 29 gennaio in rito abbreviato a 2 anni e 4 mesi Tuffariello e a 2 anni e 2 mesi Amatiello e Varsallona. Nelle motivazioni della sentenza si analizza il modus operandi dei due carabinieri, che, dopo l’ispezione alla Niagara, “gonfiarono ad arte” l’indagine nei confronti dell’azienda,” ben consapevoli della inconsistenza delle accuse sollevate” (tanto che il fascicolo venne poi archiviato), allo scopo di “ingenerare nelle persone offese un effettivo timore di poter essere arrestati o di vedere l’impianto sequestrato”. Per essere ancora più convincenti si vantavano spesso davanti al titolare e ai dipendenti di aver “sbattuto in galera questo o quell’altro imprenditore”.

Insomma un “clima di terrore creato ad arte” che partiva dalla formulazione di un’accusa infondata, “ma all’apparenza giustificabile con una mancanza di perfetta conoscenza della specifica questione, che sarebbe stata chiarita e ridimensionata in sede di richiesta di misure cautelari”. L’escamotage era quello di dover poi corroborare i dati della relazione “con una difesa più elaborata – scrivono i giudici -, e qui sarebbe entrata in gioco al società che i tre imputati si apprestavano proprio in quei giorni a costituire, giustificando il passaggio di denaro”.

Denaro, era il denaro infatti che li muoveva. E, qui si entra nel campo delle ipotesi, la costituenda società poteva fargliene avere tanto. Lo lascia intendere anche il tribunale, quando chiude stigmatizzando “i motivi a delinquere”, “strettamente legati alla ricerca di lucro, in totale spregio, quantomeno per quanto riguarda i militari, dei doveri istituzionali connessi al ruolo”.

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