Il mondo FQ

La vita rionale e l’establishment borghese

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Come si chiama quel tale, chiesi alla vecchina con le gambe rovinate dalle varici. Sedevamo al tempio. Come si chiama: Iano? Era curvato sull’ultima vertebra, aveva una gobba da cammello, cianciava qualcosa, aveva smarrito il senso della fierezza, maledizione. La fierezza, scrissi sul moleskine, “è la spada sguainata nel frangente opportuno, altrimenti è l’obiezione tirata in ballo quando proprio non te lo aspetti”. Ero abbastanza soddisfatta del risultato. La rubrica raccontava la città intestina, i suoi metauniversi frastagliati, i suoi piccoli inferni. La vecchia guardava davanti a sé il mondo che le apparteneva, quella vita rionale, azioni che sanno or ora di popolo. La vita vera sapete, odori forti, uomini che non pativano di esserlo, certi pescatori dalle mani rugose, esistono ancora. Poi sussiste una specie di establishment borghese, allora mi saltano i nervi.

Al tempio scorrevano i giorni, innocui, riconoscevo i suoi abitanti, i gruppi di studenti si ricompattavano ad una tal ora, gli impiegati che sbrinavano dal frontespizio di una banca sembravano una mandria di favolosi caprioli, dal pelo rasato e in doppio petto. Va’ che compagnia sbarazzina, che leggerezza, che emancipazione. Ridevano e si scambiavano pacche sulle spalle, mostrando orologi di valore e scarpe comode con suola di cuoio. Ero diventata brava, giornalista di razza (da morir dal ridere e chi ci credeva?). La vita al dettaglio, minuziosa, pedissequa, ero una maestra, nella sostanza non sapevo cosa fosse, intendo la vita. La mia panca era un orizzonte anche, capivo tutto, come no; poi c’era il crocchio di vecchine, levatevi dai piedi. Mi facevano spazio invece, roba da matti. La vecchia con le varici mi carezzava i capelli, odio questa cosa, mi viene subito sonno. Via, poi sarebbe tornato il cavaliere errante, l’ebreo, il poeta, levatevi dai piedi. Al capo non chiamavo, 180 righe erano quelle. Tereza tornava dalla casa occupata, nel quartiere storico, tra budelli segreti, come segreta tutte le volte era la mia costernazione scoprendola viva, Tereza, viva, ubriaca, malata di cancro. Tereza aveva tagliato i capelli. Come hai fatto? Io? Non lo so. Come ho fatto cosa, di grazia? L’ebreo mi prometteva: “hai perso tutto, ma tutto troverai”. Come no. “Sei una bella donna” diceva il poeta. Falso. Agli angoli della bocca, la solita smorfia, ogni mattina.

(continua)

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