La campagna “Ferma il bastardo” di Yamamay ha fatto discutere e diviso un po’ tutti, anche le persone che da anni si occupano di violenza contro le donne e parità di genere. Ottimo, dal punto di vista di Yamamay, perché «nel bene o nel male, purché se ne parli» è una regoletta elementare che ormai tutti i comunicatori conoscono, anche quelli meno capaci. Soprattutto loro, verrebbe da dire.
Tecnicamente, infatti, la campagna non è un granché, come ha chiarito Annamaria Testa: usa un termine forte ma politicamente scorretto (perché prendersela con i nati illegittimi?); è incoerente per grafica e contenuti con le comunicazioni pregresse di Yamamay; ha una call to action generica (“Denuncia i violenti”), che certo non basta a farci agire davvero contro la violenza (il numero di telefono del ministero delle Pari Opportunità appare solo negli annunci stampa, il che non basta).
Lorella Zanardo, pur consapevole di questi limiti, difende la campagna ricordando che siamo in Italia, dove la mancanza di educazione e consapevolezza su questi temi è gigantesca: «Se io fossi la direttora marketing di un’azienda che vende mutande chiederei a chi critica: “Ma care signore, cosa volete? Anziché investire come siamo soliti fare, in tette e culi, abbiamo dedicato una piccola parte del budget al tema della violenza alle donne. Certo lo facciamo per il profitto. Ma la nostra campagna vi fa danno?” No, non ci fa danno, rispondo. E in assenza di Stato, aiuta a innalzare il livello di consapevolezza. Fosse anche che una sola delle 300mila che segue Yamamay su Fb, cercando un tanga, si soffermasse a riflettere sul tema violenza, sarebbe un successo».
Capisco la posizione di Zanardo e in parte la condivido: in assenza di istituzioni, ben venga il contributo delle aziende. Che fra l’altro potrebbero (e dovrebbero) contribuire anche se le istituzioni non latitassero; meglio ancora, poi, se fra pubblico e privato sul tema ci fosse collaborazione. Dunque non lancio anatemi contro l’uso di temi sociali nella pubblicità e nel marketing, se ben fatto.
Il punto però è proprio questo: se ben fatto. La campagna Yamamay non è per niente una buona campagna. Per tutte le ragioni spiegate da Annamaria Testa e per una in più, molto semplice: non si combatte la violenza con immagini che la mettono in scena, perché così facendo la si conferma, la si moltiplica e la si rimbalza nella società, che anche di immagini si nutre. Né si aiutano le donne a uscire dal ruolo di vittime, mostrandole per l’ennesima volta come vittime.
Insomma, detto in poche parole: proprio adesso che persino in Italia, persino le istituzioni pubbliche, persino le associazioni più affezionate al cliché della “povera vittima con i lividi e le braccia protese” avevano cominciato a evitare questo tipo di errori, ci voleva un’azienda che produce mutande per infliggerci l’ennesima donna con l’occhio pesto? Per farci tornare indietro?