2 agosto 1980, ore 10,25. 20  chilogrammi di micidiale esplosivo fanno saltare in aria la stazione di Bologna, uccidendo 85 persone e ferendone 200. Da  quel  momento  parte,  e  continua  ancora  fino  ai  giorni nostri, un tristissimo  calvario per quelli di noi che erano qui quel giorno e si sono ritrovati  lesi  nel  corpo e nell’anima e per i familiari di chi in questo piazzale  ha  trovato  la morte, costretti a subire un ergastolo del dolore deciso da altri.

I nomi di questi “altri” vogliamo ricordarli da questo palco, per ricordare le  loro responsabilità, le responsabilità di chi ha attuato la strage alla stazione  e  di  chi  ne  voleva nascondere i retroscena: sono i terroristi fascisti Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini, esecutori materiali;  sono  il Gran Maestro della Loggia Massonica P2 Licio Gelli, il faccendiere Francesco Pazienza, gli appartenenti al SISMI (Servizio Segreto Militare)  ed iscritti alla Loggia Massonica P2, generale Pietro Musumeci e colonnello  Giuseppe  Belmonte,  coloro che hanno depistato le indagini per tentare di condurle su un’ inconcludente pista internazionale. Nonostante  le  condanne,  tutti  costoro  sono  in  libertà  da  anni. Nel manifesto di quest’anno abbiamo scritto: OGGI ARRIVARE  AI MANDANTI È  POSSIBILE: IL RICORDO CONSOLIDI LA MOBILITAZIONE DELLE COSCIENZE. LA VERITÀ È A PORTATA DI MANO.

Dopo  le condanne definitive del 1995 e del 2007, non vi è più stato nessun sussulto  da parte della Procura di Bologna, nessun tentativo di leggere il loro  disegno  politico,  pur abbastanza trasparente, se letto nel contesto complessivo  di  tutto  il disegno stragista portato avanti dal 12 dicembre 1969  ed esposto lucidamente nella relazione della Commissione Parlamentare presieduta  dalla  Onorevole  Tina  Anselmi  ed  attraverso  una  serie  di accertamenti  eseguiti  nell’ambito delle indagini svolte da numerosi altri giudici.

Oggi  ci  rendiamo  conto  che, nel corso delle indagini sul fallimento del Banco  Ambrosiano,  furono  sequestrati  a Licio Gelli anche altri atti dai quali,  sulla  base  delle conoscenze attuali, è possibile trarre argomento per   considerare   il   suo  coinvolgimento  molto  più  che  un  semplice depistaggio. Infatti,  appunti  recentemente  rintracciati,  scritti  da  Licio  Gelli e contenenti  riferimenti  alla città di Bologna, provano  la destinazione  a luglio 1980  di milioni  di dollari a persone vicine a Gladio e ai Servizi Segreti; in esse si fa  esplicito  riferimento  a  finanziamenti  per  oltre  10 milioni di dollari,  erogati  tra  luglio e settembre 1980 tramite le collegate estere del   Banco   Ambrosiano   a  favore  di  uomini  che  a  quelle  strutture appartenevano.  

Tutto   ciò  porta   a  presupporre   che  non  siamo  più nell’ambito   del   depistaggio,   ma   in   quello   del   pieno  concorso nell’organizzazione della strage. Da  una  attenta lettura di tutte le sentenze definitive pronunziate sinora in  materia  di  stragi, anche se assolutorie in ordine a singole posizioni processuali,  tutte  indicano  univocamente  negli  ordinovisti  veneti  i responsabili  di  tutte  le stragi dal 1969 in poi e nei servizi segreti le strutture che hanno offerto loro sistematicamente protezione. Non  vi  è  alcun dubbio che l’interpretazione della vocazione stragista di alcuni  ceti  in  quegli  anni  fu  resa  processualmente impraticabile per effetto  della  copertura data dagli onorevoli Giulio Andreotti e Francesco Cossiga   alla   operazione   Gladio   ed  alle  strutture  connesse,  che, contrariamente  a quanto dichiarato in Parlamento dal  primo , nell’autunno 1990,  era  strutturata  per condizionare il normale svolgimento della vita democratica  del Paese e sfruttava sistematici rapporti di collaborazione e di strumentalizzazione degli uomini di Ordine Nuovo e della mafia.

Vi  sono  poi  anche numerosi altri elementi di prova che l’Associazione ha sottoposto all’attenzione della Procura bolognese da oltre un anno. Tutti  dimostrano che a suo tempo i depistaggi furono molto più numerosi di quelli  accertati  e  che  la  presenza pervasiva di ufficiali e funzionari piduisti  negli  organi  di  investigazione  riuscì  allora pienamente  nel proposito  di  frammentare  il materiale investigativo in modo che esso non fosse leggibile nella sua unitarietà.

Aspettiamo  che  la magistratura ne tragga le conseguenze evitando di farsi blandire e prendere in giro da acchiappafantasmi che sembrano perseguire il solo scopo del depistaggio della memoria e di sollecitare da parte della opinione pubblica un’assoluzione  mediatica degli esecutori materiali della strage già condannati con sentenza definitiva. Una  cosa  è  certa,  ed oggi viene emergendo progressivamente nel corso di alcuni  processi:  le indagini di quegli anni furono fortemente viziate dal pregiudizio della completa separatezza tra attentati di natura terroristica ed  attentati  di  natura  mafiosa.  La  democrazia  italiana  non  può più convivere  con  una  serie  di  equivoci  che hanno poi aperto la strada ad ulteriori  tentativi,   non   meno   insidiosi,   di  ribaltare  l’assetto costituzionale del Paese.

Occorre  che  sia  chiaro  a tutti che la strage del 2 agosto 1980 oltre le 85vittime  ed  i  200  feriti  ha avuto come parte offesa principalmente la democrazia di questo Paese. Nelle  settimane  precedenti  la  strage  alla  stazione, Mario Amato aveva intuito  che  il  Paese  si trovava alla vigilia di avvenimenti drammatici: “Siamo  in  pratica  alle soglie di una guerra civile” aveva dichiarato nel corso di accorate audizioni davanti al CSM, avvenute nel marzo e nel giugno 1980,  l’ultima dieci giorni prima di essere assassinato dai NAR guidati da Valerio  Fioravanti .È anche e soprattutto grazie al lavoro di quell’eroico magistrato  che  si  è  potuti  giungere a scoprire esecutori e depistatori della  strage del  2  agosto  ed  a  lui  e ai magistrati che hanno saputo raccoglierne il testimone va tutta la nostra commossa riconoscenza.

La  verità  raggiunta finora è però solo parziale: mancano i mandanti e gli ispiratori politici. Oggi si può fare di più. Oggi si deve fare di più.

Tra  i  400  nomi  che avevamo suggerito alla procura di interrogare vi era quello  di  Amos  Spiazzi.  Non  c’è  avvenimento  dal potenziale contenuto eversivo  che  non  abbia  visto emergere, negli anni ’70 e ’80 il nome del colonnello Amos Spiazzi, che nonostante ciò (o forse proprio per questo) ha percorso tutti i gradi della carriera militare, fino a divenire generale. Amos  Spiazzi  è morto nel novembre dello scorso anno, senza che nessuno lo avesse interrogato.

Nessuno  gli  ha  chiesto  perché  nella  sua  agenda del 1980, il giorno 2 agosto, all’ora della strage, avesse annotato: “Pacco ritirato in posto B”. Nessuno  gli  ha  chiesto  quali  erano  gli  ordini  a cui più volte aveva proclamato di obbedire, e da chi provenivano questi ordini.

Nessuno  ha  chiesto perché già nel marzo del 1980, cinque mesi prima della strage,  fosse  stato artefice del primo depistaggio tendente ad incastrare il  neofascista  “dissidente”  Marco  Affatigato e far fallire con lui ogni indagine sulla strage.

Riteniamo  di  aspettarci,  in  forza  della  nostra fiducia nello Stato di diritto,  che  la  Magistratura  non  mancherà  di  sgombrare  il campo dai cosiddetti   depistaggi,  di  cui  gli  esiti  parziali  della  Commissione Mitrokhin  sono  uno degli esempi, ed approfondisca tutto ciò che è utile e necessario  dalla  rilettura generale del fenomeno terroristico che abbiamo proposto.

Nel  frattempo  è  scomparso  anche  il  Senatore a vita Giulio Andreotti e nessun   magistrato  di  Bologna  ha  trovato  il  tempo  di  interrogarlo, nonostante  il  suo  nome sia stato fatto da più testimoni del processo per piazza  della  Loggia  come   referente del  cosiddetto Anello, un servizio supersegreto  che  coordinava  elementi  dei  vari  servizi segreti e della malavita.

Ci  rivolgiamo ai magistrati, alle istituzioni e ai cittadini tutti: oggi è possibile  svelare  e  raccontare  una  storia  collettiva sepolta da circa trent’anni   di  oblio  organizzato,  è  possibile  portare  avanti  quelle battaglie proprie delle associazioni delle vittime.

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