In Nord America è stato il motore di un’autentica rivoluzione energetica, che ha portato anche alla riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Ma è anche la bestia nera degli ambientalisti e il sogno proibito dei ministri di molti Paesi del Vecchio Continente
Negli Stati Uniti è stato il motore di un’autentica rivoluzione energetica. Ma è anche la bestia nera degli ambientalisti e il sogno proibito dei ministri di mezza Europa: lo shale gas, che in pochi anni ha tagliato di due terzi il costo dell’energia degli Stati Uniti, riducendone anche le emissioni di anidride carbonica. Meno chiare restano però le sue prospettive di sviluppo in Europa, come pure gli impatti delle estrazioni sull’ambiente. Anche per la pratica dei trivellatori di “comprare la discrezione” delle popolazioni locali. Fino a pochi anni fa il gas detto “non convenzionale” era poco più di una curiosità da ingegneri minerari.
La corsa all’oro
Poi è arrivato il boom americano, spinto da fattori economici e tecnologici: l’aumento vertiginoso dei prezzi del gas a metà degli anni Duemila per il declino della produzione interna, da un lato, e dall’altro la maturazione delle tecnologie di fracking hanno reso conveniente lo sfruttamento delle riserve non convenzionali. Scatenando una vera corsa all’oro per le società energetiche. Risultato: un’impennata della produzione e crollo dei prezzi. Tutto in pochissimo tempo, cogliendo di sorpresa gli analisti e imprese. Per dare un’idea: ancora a ottobre 2008 la società Wood MacKenzie si domandava se la maggiore produzione di shale gas avrebbe potuto ritardare il massiccio incremento delle importazioni di gas liquefatto (Gnl) allora atteso per gli Usa. Appena un anno dopo, nel 2009, grazie al gas non convenzionale gli Stati Uniti superavano la Russia come primo produttore mondiale di gas e il loro import di Gnl si riduceva a un terzo. I prezzi del gas alla Borsa Henry Hub intanto precipitavano dai 13 dollari per Mmbtu del 2008 a 3,5-4, livello a cui si trovano tuttora (contro gli oltre 10 dell’Europa)
Per l’economia americana ha significato energia a basso costo e minori emissioni. Un vantaggio competitivo sulle industrie europee, come ha ricordato a maggio anche il Consiglio Ue. Con tanto di beffa climatica: col gas low cost che ha sostituito il carbone nella generazione elettrica, Washington, da sempre refrattaria ad accordi internazionali sull’anidride carbonica, può vantare oggi una flessione delle emissioni di Co2 che non è riuscita alla più verde Bruxelles (un risultato, sostengono però i detrattori, vanificato dalla dispersione di metano in atmosfera durante le perforazioni, tra il 3,6 e il 7,9% del metano estratto secondo uno studio della Cornell University).
Scontro Ue-Usa
Ma l’eco della shale revolution è arrivata forte anche al di qua dell’Atlantico. Il primo effetto è stato indiretto: l’azzeramento di fatto delle importazioni Usa ha dirottato le navi da Gnl lì destinate verso l’Europa. Dove hanno contribuito ad abbassare i prezzi sui mercati a breve (spot), già inondati di offerta per la crisi economica, e a mettere fuori mercato i grandi contratti take or pay con Russia e Algeria.
Un effetto diretto potrebbe poi arrivare a breve: il boom produttivo ha creato le condizioni per esportare gas naturale. Il governo americano, pressato dall’industria manifatturiera che teme rialzi sui prezzi interni dell’energia, ha a lungo rinviato una decisione ma sembra ormai orientato a concedere nuove autorizzazioni all’export. Due impianti hanno già avuto il via libera e il presidente Barack Obama ha annunciato che gli Usa diventeranno un esportatore netto nel 2020. Per l’Europa è una buona notizia? Senza dubbio per alcuni mercati nazionali storicamente isolati e solo di recente aperti alla competizione, come l’Italia, l’accesso al mercato statunitense può rappresentare un’occasione ulteriore per diversificare le fonti.
Quanto al prezzo, però, circolano attese eccessive. Uno studio dell’OxfordInstitute for Energy Studies ha mostrato che una volta conteggiati i costi di liquefazione e trasporto, lo shale gas americano non è poi così conveniente per l’Europa. E smette di esserlo con prezzi allo Henry Hub tra 5 e 7 dollari per Mmbtu, un livello non così distante dall’attuale. Insomma per la Ue l’unico vantaggio vero sarebbe poter estrarre shale gas direttamente in casa propria. Ma è praticabile? Secondo recenti stime dell’Energy Information Administration americana in Ue ci sono riserve di shale gas per circa 13.300 miliardi di metri cubi, pari a circa 30 anni di consumi europei, per il 60 per cento concentrate in Polonia e Francia.
Finora il gas non convenzionale in Europa ha fatto pochi passi avanti. Non solo per ragioni tecniche – è di pochi mesi fa la rinuncia di tre compagnie, tra cui Exxon a sviluppare i giacimenti polacchi per difficoltà geologiche e regolatorie – ma anche e soprattutto ambientali. Che hanno indotto la Francia a metterlo al bando già nel 2011 e anche in Italia, dove pure le riserve sono minime e si contano solo due progetti, creano grande apprensione.