Alice, 35 anni e mamma da due mesi, ha un ristorante nel centro di Osaka che gestisce con il marito. Vive sospesa tra le ricette di casa che serve ai suoi clienti e l'Oriente dalla vita ordinata ma monotona, dai rapporti umani fatti cordialità ma freddi
“Era la scuola di lingue più grande del Giappone. A Osaka c’era il centro multimediale, io lavoravo collegata in videoconferenza con gente da tutto il paese. Le lezioni andavano avanti 24 ore su 24. Facevamo conversazione in italiano: in 40 minuti bisognava parlare e far divertire gli studenti. C’era di tutto: liceali, universitari, manager, casalinghe con molto tempo libero amanti dell’Italia. ‘Mi piace Roma‘, imparavano a dire, ‘Mi piace la pizza’, ‘Mi piace l’opera’. L’Italia era il loro modello, la guardavano e la adoravano attraverso i suoi stereotipi, lo stile di vita italiano era il massimo”. Poi nel 2008 la scuola ha chiuso e Alice ha dovuto ricominciare da zero, come se quei 3 anni di lavoro non fossero mai esistiti. Oggi, a 35 anni, ha un ristorante nel centro di Osaka che gestisce con il marito, un bimbo di 2 mesi e vive sospesa tra l’Italia dei piatti che cucina e serve ai suoi clienti e il Giappone dalla vita ordinata ma monotona, dai rapporti umani fatti di cortesia e cordialità ma freddi. Soprattutto, Alice si sente sospesa in un limbo tra la voglia e la paura di tornare a casa.
Il Giappone, casualità più che sogno. La laurea in Lingue orientali nel 2005 a Venezia, poi Alice Colosini è tornata a casa sua a Gussago, in provincia di Brescia, a fare ciò che faceva durante gli studi: “Cuoca, cameriera, modella, interprete, segretaria. Sempre in nero”. Intanto inviava curriculum: “L’unica a rispondermi è stata la scuola di lingue. Dopo un colloquio a Parigi, sono partita per Osaka. Dovevo rimanere 6 mesi, ma lo stipendio era ottimo e avevo il terrore di tornare in osteria. E mi sono fermata”. Quando la scuola ha chiuso, Alice ha fatto la hostess in un club per un anno, poi ha conosciuto suo marito e hanno aperto il locale. “È a metà tra il ristorante e la galleria d’arte: mio marito è un pittore, mettiamo i nostri spazi a disposizione di chi voglia fare una mostra”.
In Giappone aprire un’attività è facile: “Basta chiamare l’ufficio di igiene: chiedono che tu abbia due lavandini e che faccia un corso gratuito sulla sicurezza. Poi apri. Nessuna tassa o spesa prima dell’apertura. Anzi, lo Stato fa prestiti agevolati a chi apre e non paghi l’Iva per 2 anni”. Con meno burocrazia sognare è più facile: “Se hai un sogno, qui hai la sensazione che sia realizzabile. Nessuno ti dice: ‘non dire cazzate, vai a lavorare'”. Giappone, dove lo Stato cerca di facilitarti la vita: “La denuncia dei redditi la fai da solo, ma ti mandano a casa un funzionario che ti spiega come farla e che torna due, tre o quattro volte se hai problemi. Così sono sicuri che la gente paghi ciò che deve”. La cosa difficile è restare se sei straniero: “Per me il visto lo aveva fatto la scuola – continua Alice – per rimanere qui devi avere un lavoro, la strada più facile è trovare una ditta che ti sponsorizzi. Ma arrivare con il visto turistico di 3 mesi e cercare di lavorare non è possibile: nessuno ti darà mai un lavoro, la legge non lo consente”.
Ordine, innanzitutto. Poi cordialità, tranquillità, efficienza: “La gentilezza è d’obbligo, quasi per contratto. Ogni tipo di violenza pare bandito, non c’è gente che ti urla se ti attardi un secondo in più al semaforo, che ti risponde male alla posta”. Un ordine che si riflette nei rapporti umani: “Avere relazioni sociali come quelle che si possono avere in Italia o in Europa è impossibile: tra le persone c’è un muro rivestito di cordialità, oltre quello è impossibile andare. Sul lungo periodo finisce per pesare”. Come pesano anche altre cose: “Le città sono orribili: palazzoni giganteschi svettano accanto a casette basse, tangenziali trafficatissime si incuneano in pieno centro. Poi, essendo ad altissima densità di popolazione, hanno pochissime aree verdi: da Osaka e Tokyo è tutta una conurbazione”.
Alice pensa da tempo di tornare, Fukushima le ha dato un motivo in più: “La gente non vuole pensarci, minimizza. Lo Stato sta facendo una campagna per sensibilizzare i cittadini a consumare i prodotti che vengono dall’area del disastro. Ora i detriti, molti dei quali radioattivi, sono stati impacchettati e spediti nelle varie città del paese per essere bruciati nei vari inceneritori. Qui a Osaka l’amministrazione non li ha voluti, ma io ho paura”. Il biglietto aereo ancora non c’è, il progetto sì. A Osaka il momento non è dei migliori: “La passione per il made in Italy sta scemando: troppi locali italiani, ora sta salendo la Spagna“. Pensare al ritorno è naturale: “I miei hanno una cascina con un b&b in Franciacorta: l’idea è quella di ingrandirla. Ma non mi decido: la situazione economica la conosco, il lavoro non c’è e le esperienze dei miei amici precari non mi incoraggiano. Ho paura, molta paura di pentirmene”.