Ieri sono stata due ore con una donna massacrata nel corpo e nell’anima da anni di violenze. Raccoglieva un abisso di sofferenza nel fisico esile e minuto. Ascoltavo le sue parole e sentivo disperazione e dolore. Aveva perso tutto: lavoro, casa, vicinanza dei figli, per una relazione sentimentale violenta e distruttiva e portava il peso di infiniti sensi di colpa nei confronti di familiari, amici, figli e persino per l’uomo che ha rischiato di ucciderla più di una volta. Rimproverava a se stessa di averlo “abbandonato” e anche di non essere riuscita a cambiarlo. Non ero la sola ad occuparmi di lei, altre persone la stavano aiutando con ruoli differenti riconoscendo la violenza che subiva da anni. Il primo passo lo ha fatto e spero continui a essere aiutata a percorrerne altri la allontanino dal pericolo di essere distrutta definitivamente.
Dopo averla accompagnata al sicuro, l’ho portata con me il resto della giornata ricordando le parole e il suono della sua voce spezzata.
E’ ancora con me oggi. Lo so, l’ho compreso per l’inquietudine che provo ancora e per la spiacevole discussione con una donna su Facebook che mi ha accusato di essere una “cattiva femminista”. E me ne dispiace, non per essere stata giudicata una pessima femminista di cui mi importa poco ma per la discussione. E il motivo lo racconterò tra poco.
Svelare la violenza è un processo estremamente doloroso. Quando le donne subiscono maltrattamenti e decidono di rompere il silenzio, possono scegliere di farlo con la polizia quando denunciano, nei tribunali durante i processi, con assistenti sociali per chiedere aiuto, con psicoterapeuti per essere aiutate a capire, oppure nei centri antiviolenza, con amici, familiari. Le donne svelano, in ogni tempo e luogo dove pensano o sperano di essere ascoltate autenticamente e con rispetto.
Raccontare di aver subito violenze per quanto sia difficile e faccia male è una parte importante nel processo. Le parole se ascoltate senza essere rifiutate e tranciate da giudizi negativi o irrise o banalizzate, fanno parte del processo dell’elaborazione dell’esperienza che viene via via riformulata fino ad aver coscienza del senso e significato che ha avuto nella nostra vita la sofferenza. A volte è un lavoro che dura tutta la vita. Così si trasforma il veleno in medicina ed è un’operazione da alchimisti che va fatta in spazi dedicati.
Oggi ho saputo che un’altra donna ha rivelato su facebook di avere subito delle violenze. Un outing che segue di pochi giorni quello di un’altra donna che ha raccontato su un social network di violenze subite dal partner.
Questa modalità mi lascia perplessa e l’ho apertamente condannata sulla mia pagina Facebook, forse con una certa intransigenza, ed è stato motivo dell’accusa di tradimento nei confronti delle donne vittime di violenza e del confronto acceso con una amica di Fb. Ma dirò di più, penso che la rivelazione online, per quanto possa sembrare liberatoria, alla fine sia soprattutto nociva.
Il web, come mi scriveva un amico poco fa, non è il mondo reale ma virtuale, dove nulla è autentico. Non è come raccontare un’esperienza e renderla pubblica: in un libro, un film, una canzone, una poesia.
Sul web interagisci con le altre persone e le interazioni sono immediate e superficiali proprio per la natura del mezzo. E’ possibile e persino facile, basta un clic, e rendiamo pubblici aspetti intimi della nostra vita. Ci vuole molta consapevolezza nell’adoperare la rete. Quando sveliamo in esperienza significativa corriamo il rischio che qualcosa di prezioso, e per noi importante e delicato, persino sacro, sia dato in pasto alla visceralità degli utenti che consumano divorando come un tritacarne di tutto: notizie di politica, di cronaca, di morte e di vita, dove tutto si percepisce e apprende senza sentire veramente profondamente.
Un dolore così profondo come una esperienza di violenza affidato alle intemperanze delle rete con il rischio della banalizzazione può trasformare la propria esperienza dolorosa in un reality dove qualunque sconosciuto si senta autorizzato a commentare anche in maniera irrispettosa persino volgare, uno “spettacolo” che non gli aggrada. Il dolore ha bisogno della dimensione del sacro. Ma abbiamo talmente appreso il linguaggio della pornografia del dolore quello a cui ci ha educato voyeuristicamente per anni la televisione che alla fine usiamo lo stesso linguaggio con le nostre esperienze. Le diamo in pasto e le divoriamo noi stessi.
E’ possibile che alla fine si sia talmente malati di narcisismo da arrivare a sacrificare sulla scena virtuale del web, anche le nostre più profonde sofferenze?
Perché il dolore ci abbandoni c’è bisogno di luoghi e tempi dove possa essere curato con rispetto e tatto. Nulla che possa essere compreso o accolto con un click, che sia un mi piace o un non mi piace.
@nadiesdaa