All’assemblea dell’Abi, l’Associazione delle banche italiane, il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha scosso i rappresentanti delle fondazioni bancarie in platea. Ha richiamato i meriti delle fondazioni e il loro ruolo stabilizzante, salvo poi rivolgere loro un invito a diversificare i portafogli azionari, allentando la presa sulle banche domestiche e facendo spazio a nuovi investitori. Il monito di Visco riecheggia quanto già segnalato a marzo dal Fondo Monetario Internazionale, che sottolineava la governance “peculiare” delle fondazioni bancarie italiane e suggeriva una maggiore diversificazione del loro portafoglio azionario.
La pax bancaria è finita
Ai grandi investitori stranieri non è mai sfuggita la circolarità dell’architettura finanziaria del nostro Paese, in cui il debito sovrano – il terzo al mondo – è sottoscritto prevalentemente da banche domestiche, a loro volta controllate dalle fondazioni bancarie. Da questo controllo scaturisce un presidio fondamentale delle fondazioni sui destini delle finanze pubbliche e la pax bancaria tra Stato e fondazioni. Per il mondo delle fondazioni, o quantomeno per una parte di esse, la pax bancaria è consistita nella possibilità di disporre di un vasto potere, garantito anche dal presidio che il mondo bancario ha sulla carta stampata.
I pochi politici che hanno puntato il dito contro questa forma di autorità non eletta hanno pagato un duro prezzo. Ma per le fondazioni sono cominciati i problemi: l’anno scorso rapporto di Mediobanca Securities a firma di Antonio Guglielmi lamentava la gestione poco trasparente e poco prudente delle fondazioni. Lo testimonia la vicenda che ha portato l’Università di Venezia a pignorare le azioni di Unicredit in carico a Cassamarca per 9,5 milioni di euro, vale a dire per l’ammontare del debito della Fondazione verso l’ateneo. Per l’altro contraente del patto, lo Stato, la convenienza è derivata dal disporre di un alleato nella tempesta del debito pubblico.
Tra Via XX Settembre e le fondazioni è sempre esistito un “telefono rosso”, come quello che nella Guerra Fredda collegava Cremlino e Casa Bianca per scongiurare l’apocalisse atomica. Negli ultimi venti anni l’esigenza di finanziare l’enorme debito pubblico si è presentata ciclicamente. Ci hanno pensato le banche italiane, i cui vertici agivano in sintonia con le fondazioni azioniste, a loro volta in contatto con la politica. Uno schema capace, per qualche tempo, di tenere il nostro debito al riparo dalla volubilità dai mercati internazionali, ma inadatto alle crisi che abbiamo attraversato dal 2008. Oggi l’architettura circolare fondazioni-banche-debito pubblico non tiene più.
A mettere in discussione la pax bancaria è la combinazione tra problemi e talora scandali (come quello Monte Paschi) e l’inasprimento della crisi finanziaria. Le banche italiane sono oggi piene zeppe di debito sovrano, come confermato da Bce, Eba e Consob nelle loro note tecniche. Note che suonano come bollettini di guerra, dato che gli investimenti diretti in titoli di Stato domestici costituiscono uno dei canali di trasmissione della crisi del debito sovrano alle banche, e che il governo sta promuovendo credit fund per offrire alle aziende italiane i finanziamenti che non trovano nel sistema bancario. Oltre a saturare con debito pubblico i bilanci delle banche, la crisi ha anche colpito i loro azionisti.
Basti pensare a Unicredit, dove nuovi investitori internazionali sono entrati nella compagine sociale del gruppo e le fondazioni azioniste non hanno partecipato all’aumento di capitale della banca, diluendosi. Un altro caso è la trattativa tra il Tesoro e le fondazioni sull’azionariato di Cassa Depositi e Prestiti. Il negoziato sulla conversione delle azioni privilegiate in mano alle fondazioni si è tradotto in un minore peso delle fondazioni nell’azionariato di Cdp. Non sono mancate spaccature tra le fondazioni come testimonia la causa legale tra Cassa Depositi e CariVerona sulla liquidazione della quota di quest’ultima.
Chi ha i soldi comanda
Se le parole di Visco segnano uno spartiacque tra il vecchio mondo e il nuovo, resta aperta una questione fondamentale: l’individuazione di nuovi investitori in grado di assicurare una presenza stabilizzante nelle banche italiane. Normale che il processo di individuazione sia complesso e lungo. Proprio da Cassa Depositi e Prestiti, scrigno dei rapporti tra Stato, politica e fondazioni arriva la notizia dell’ingresso di un investitore mediorientale nel capitale della controllata FSI.
La seconda questione riguarda la rimodulazione del rapporto tra il mondo delle fondazioni e le istituzioni statali, che è profondo e difficilmente verrà meno dall’oggi al domani. Dopo i capitali di Abu Dhabi in Unicredit, sarebbe un ulteriore tassello di un abbraccio mediorientale che si fa più stretto. Chi controlla le banche, in una realtà bancocentrica come l’Italia detiene larga parte del potere residuo in questo Paese. Il vecchio mondo accetterà di spartire questo potere con nuovi arrivati?
di Francesco Galietti*
*già consulente del ministero dell’Economia, è fondatore di Policy Sonar
da Il Fatto Quotidiano del 31 luglio 2013