E’ successo di nuovo e, purtroppo, succederà ancora: una donna viene maltrattata, probabilmente malmenata e picchiata dal proprio compagno e decide di denunciarlo online, pubblicando su Facebook la sua storia, con tanto di foto a documentare i segni della brutale violenza subita. Questa volta protagonista del dramma domestico sbattuto sulle pagine bianco-blu del popolare social network è stata Silvia Chizio, 30 anni,  ex concorrente di Miss Italia.

Ad aprire la stagione dei processi – e, purtroppo, delle sentenze – online era stata, però, qualche settimana fa, la compagna del popolare cantante Massimo Di Cataldo, pubblicando le foto del suo volto livido e tumefatto e, addirittura, quelle raccapriccianti, descritte come appartenenti ad un feto.

E’ un fenomeno con il quale dobbiamo, purtroppo, abituarci a confrontarci ma non possiamo rassegnarci. Altro che i “processi in Tv” nei salotti di anchorman stellati o i “mostri” sbattuti sulle prime pagine dei quotidiani che contano, i processi online rappresentano una deriva mediatica straordinariamente più pericolosa, capace di produrre conseguenze nefaste e perverse e di distruggere la vita di una persona. Oggi sono donne ferite a “condannare” mediaticamente i loro compagni ma domani potrebbero essere ragazzini adolescenti a decidere di sbattere online storie vere o presunte di violenza domestica.

Accade sempre più spesso che attraverso i social network persone – e non avatar – in carne ed ossa, identificate con tanto di nome, cognome, foto e magari link al loro profilo online, vengano condannate ad una delle più severe delle pene che la società dell’informazione conosce: la “lapidazione mediatica“, legati, mani e piedi, nella più grande delle piazze che l’umanità abbia mai frequentato ed esposti al lancio di “pietre” virtuali, che  producono, però, ferite profonde quanto le pietre reali e, talvolta, ancora di più.

Qualcuno si chiederà dove sia il problema se un uomo che ha selvaggiamente picchiato una donna subisce una condanna di questo genere o, a maggior ragione, se una simile condanna tocca ad un adulto, colpevole del più feroce dei crimini: aver picchiato un bambino. Ma non è così. Il problema c’è, è enorme e deve essere affrontato in maniera attenta e ponderata prima che ci si ritrovi a farlo in un contesto di emergenza ed urgenza o sull’onda emotiva suscitata da un qualche episodio di maggior impatto degli altri.

Due, tra tante, le facce più preoccupanti del fenomeno. La prima: per quanto difficile sia scriverlo davanti alle immagini del volto tumefatto della compagna di Massimo Di Cataldo o di quelle – meno nitidite – che lei racconta essere addirittura quelle di un feto, non ci si può non chiedere se sia sempre tutto vero. E se non fosse vero, se la persona dipinta come un mostro non fosse tale, chi gli restituirà mai la sua reputazione e con essa il diritto a frequentare le piazze virtuali a testa alta ed a cuor sereno? Ciascuno, naturalmente, è e deve restare libero di raccontare la sua opinione e di esprimere il proprio pensiero ma contrabbandare per verità fatti ed episodi che non lo sono non ha niente a che vedere con l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, specie quando raccontandoli si pronunciano sentenze di condanna alla lapidazione mediatica in danno di una persona, all’esito di un processo senza garanzie per l’imputato, anzi, senza un processo.

C’è poi un’altra faccia del problema, forse, persino, più difficile da comprendere: anche quando i fatti e gli episodi sbattuti online sono veri – ovvero sono destinati ad essere accertati come veri da un Giudice – c’è, comunque, da chiedersi se la “lapidazione mediatica” possa considerarsi giusta e legittima. Non c’è legge, regola, codice o principio che preveda come pena accessoria alla galera la lapidazione o la gogna mediatica. Sbattere il mostro – perché in questi casi di mostro si tratterebbe – sui manifesti delle piazze virtuali rimane un gesto moralmente scusabile e comprensibile ma mai giuridicamente legittimo salvo, naturalmente, che non sussista un interesse pubblico alla conoscenza della notizia.

Che fare, dunque, per arginare un fenomeno che minaccia di dilagare? Guai a pensare di avere risposte o soluzioni preconfenzionate ma occorre parlarne, discuterne, confrontarsi.
Le prime risposte – probabilmente parziali e, certamente, insufficienti – potrebbero arrivare, anche sulla base delle regole che già ci sono, dal Garante per la tutela dei dati personali e della riservatezza perché non c’è dubbio che condannare qualcuno alla lapidazione mediatica significa decidere – più o meno consapevolmente – di fare carne da macello della sua privacy e della sua identità personale.
Il Garante, dunque, in ipotesi come queste potrebbe e, probabilmente, dovrebbe intervenire perché è sempre meglio provare a verificare se un problema può essere risolto sulla base di regole che già esistono, invece che correre a scriverne delle nuove.
Non c’è dubbio, però, che la vera soluzione sta nella cultura e nell’alfabetizzazione all’uso dei nuovi media: senza non c’è regola che tenga.
 
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