Giorni fa Stefano Feltri segnalava il safari in corso di storici marchi simbolo di italianità, finiti nel mirino delle doppiette straniere: da Loro Piana all’Alfa Romeo; contendibili proprio in quanto ridotte a marchi, dunque loghi e labels che mantengono pregio incorporando antiche suggestioni, da manifatture che erano; quando quelle suggestioni traevano origine da prodotti reali.
Il fatto è che nell’Italia della desertificazione produttiva le aziende leader in grado di trainare l’export – i cosiddetti “campioni nazionali” – sono diventate personaggi da romanzo di Italo Calvino: inesistenti o al massimo dimezzati. Visconti e cavalieri che operano in nicchie come l’occhialeria o la calzatura. Questi i campioni con i nostri colori nel torneo mondiale. Dove si vince o si perde a seconda che si sia o meno in grado di mettere in campo beni appetibili.
Come al tempo del miracolo economico erano tali la Seicento Fiat, la Vespa Piaggio, il Moplen Montedison e la Divisumma Olivetti. Proprio al nome della celebre casa di Ivrea, forse la più innovativa industria della nostra storia, è legata la vicenda di un prodotto che avrebbe potuto esserci e non c’è stato. Qualcosa che comunque presentava tutte le caratteristiche per andare alla conquista del mondo: la fantomatica “Perottina”; il ricordo rimosso di una incommensurabile prova di imbecillità da parte dei presunti “grandi” dell’economia nazionale (battistrada emeriti di tante successive prove di inettitudine).
Cose’era la Perottina? Tecnicamente si trattava del “Progetto Olivetti Programma 101”, cui era stato dato quel nomignolo affettuoso in quanto il capo del gruppo di ricerca preposto a tale iniziativa era l’ingegner PierGiorgio Perotto (Torino 1930 – Genova 2002). Dalla cui viva voce raccolsi la testimonianza che segue: era nientemeno che il primo prototipo mai realizzato di personal computer; presentato alla fiera di New York del 1965 e venduto nello stesso anno in 44mila esemplari. Visto l’impatto oltremodo positivo di tale prodotto, Roberto Olivetti, che aveva assunto la guida dell’azienda dopo il decesso del padre Adriano avvenuto cinque anni prima, si rese conto che la famiglia non aveva risorse sufficienti per accompagnare da sola un business di tale portata. Per questa ragione invitò a consulto i tre massimi santoni della finanza laica dell’epoca: Vittorio Valletta, presidente di Fiat, Enrico Cuccia, supremo gnomo di Mediobanca, e Bruno Visentini, a quel tempo raccordo tra le imprese e la politica.
Il Gotha dei padroni del vapore esaminò l’oggetto in questione e poi si chiuse in una sorta di conclave, confabulò a lungo e alla fine emise la sua sentenza: quello strano mix di macchina da scrivere e calcolatore da tavolo non avrebbe potuto diventare un prodotto di successo, né ora né mai; per cui era auspicabile che la Olivetti si concentrasse sul suo core business (l’arredo metallico d’ufficio) lasciando perdere le stranezze. Valletta rincarò la dose dichiarando che “la società è strutturalmente solida, ma sul suo futuro pende la minaccia di essersi inserita nel settore elettronico”.
Ora sappiamo come sono andate effettivamente le cose. Ma intanto, frustrata nelle sue aspirazioni innovative da giudizi così perentori, l’azienda eporediese cedette alla General Eletric l’intera divisione grandi elaboratori, prototipi compresi. L’unico vantaggio che le derivò dalla vicenda “Perottina” fu il milione di dollari versatole dalla Hewlett Packard come royalties per poter realizzare il proprio computer HP 9100. E al buon Perotto fu riconosciuto parte del premio: un dollaro!
Me lo raccontava con un sorriso amarissimo. Perché quella non fu soltanto una grande occasione mancata. Fu il calcio d’inizio al generale arretramento del sistema produttivo nazionale dai settori avanzati e ad alta intensità di capitale. Se ora nobili imprese si sono ridotte a marchi virtuali lo si deve al disinvestimento d’allora. Anticamera della deindustrializzazione di un grande Paese manifatturiero.
il Fatto Quotidiano, 9 Agosto 2013