Da quando, il 23 maggio, ha avuto la sventura di essere nominato presidente della sezione feriale della Cassazione e, a luglio, vi ha visto piovere il processo Mediaset che andava trattato subito per evitarne – secondo le regole – la prescrizione, il giudice Antonio Esposito ha finito di vivere.
Sapeva che, per campare sereno, avrebbe dovuto calpestare la Costituzione, la legge e la sua coscienza annullando la condanna di B. possibilmente senza rinvio: insomma assolverlo, anche se dalle carte risulta inequivocabilmente colpevole. Non è vero, come scrivono i soliti tartufi, che gli sia stata fatale l’intervista “inopportuna” al Mattino di Napoli per quella frase sul motivo del verdetto, mai autorizzata nel testo concordato con l’intervistatore (“non è che tu non potevi non sapere perché eri il capo. Teoricamente, il capo potrebbe non sapere. No, tu venivi portato a conoscenza di quello che succedeva”), per giunta appiccicata a una domanda mai fatta sul caso specifico di B.. Anche se non l’avesse pronunciata nel colloquio informale con l’amico cronista che poi l’ha tradito, e anche se gli avesse buttato giù il telefono, Antonio Esposito sarebbe stato linciato ugualmente dal Giornale e dagli altri house organ della Banda B. Il peccato originale non è la frase o l’intervista: è la condanna.
Il pool Mani Pulite non disse una parola su B., eppure viene manganellato da vent’anni. Il giudice Mesiano non disse una parola dopo aver condannato la Fininvest a risarcire De Benedetti per lo scippo della Mondadori, eppure fu pedinato e sputtanato in tv per i suoi calzini turchesi. La giudice Galli non disse un monosillabo sul processo Mediaset, eppure prima e dopo la condanna d’appello fu diffamata addirittura perché figlia di un giudice assassinato dalle Br. “Non ce l’hanno con noi per quello che diciamo, ma per quello che facciamo”, ripete Piercamillo Davigo.
Con Esposito il Giornale ha esordito accusandolo di portare le scarpe da jogging e la camicia aperta, di alzare il gomito (essendo astemio), di aver anticipato in una cena la condanna di Wanna Marchi (emessa l’indomani da un collegio di 5 giudici), di aver raccontato telefonate sexy delle girl di Arcore (mai lette da nessuno e poi distrutte), di aver barattato la condanna di B. con la richiesta di archiviazione di un’indagine disciplinare suo figlio (avvenuta a gennaio, sei mesi prima che il processo Mediaset finisse sul suo tavolo) per una cena con la Minetti, di aver voluto vendicare l’estromissione del fratello Vitaliano su pressione del Pdl da subcommissario dell’Ilva. E perché, se sapeva tutte queste cose, il Giornale non le ha scritte prima della sentenza?
Poi, siccome ogni pretesto è buono per la caccia all’uomo che ha osato condannare B., il Giornale è passato dalla cronaca all’archeologia riesumando vicende che affondano nella notte dei tempi. Fino al 1980, quando Esposito era pretore a Sapri e alcuni esponenti Pci e Psi (tra cui Carmelo Conte, poi plurinquisito) l’attaccarono in varie interrogazioni parlamentari perché disturbava la quiete del paese con i suoi processi. Titolo: “Il magistrato inchiodato pure alla Camera. Nel 1980 il presidente della Commissione antimafia Pci denunciava al Guardasigilli: ‘Esposito fazioso e troppo protagonista’”. Purtroppo il Giornale dimentica di aggiungere che nel procedimento disciplinare che ne seguì Esposito fu prosciolto in istruttoria perché chi l’aveva denunciato “aveva motivi di inimicizie verso il pretore per i provvedimenti da lui emessi nell’esercizio delle sue funzioni”, in parte “sottoposte a procedimenti penali per gravissimi reati”.
Fu, secondo la commissione disciplinare del Csm, “un vero e proprio complotto contro l’Esposito…di tale portata e gravità da determinare la commissione a sollecitare il Csm a non abdicare al fondamentale ruolo di garanzia dell’indipendenza della magistratura… apprestando un’energica tutela al magistrato che è stato fatto oggetto di un così vasto attacco, scorretto nelle forme e illecito nei contenuti, da parte di un gruppo di persone che per soddisfare il proprio sentimento di vendetta o per salvaguardare i loro interessi posti in pericolo non hanno esitato a costruire a tavolino gli elementi di accusa e a coinvolgere nella disdicevole operazione rappresentanti del Parlamento”.
Non solo: l’ispettore ministeriale che aveva raccolto le accuse fu rinviato a giudizio per 30 capi di imputazione per interesse privato in atti d’ufficio, falso ideologico e diffamazione pluriaggravata ai danni di Esposito, condannato in primo grado a 1 anno e 4 mesi e assolto in appello per un dubbio sul dolo, dopo che Esposito aveva ritirato la sua costituzione di parte civile in seguito al risarcimento di 20 milioni di lire di danni e a una dichiarazione che attestava l’assoluta correttezza del giudice e l’inganno in cui l’ispettore diceva di essere stato tratto dai suoi calunniatori.
L’altroieri gli archeologi del Giornale ruminavano e vomitavano fuori un altro procedimento disciplinare contro Esposito, accusato nel 1991 di: 1) scegliere i processi “mediatici per spirito di protagonismo”; 2) usare i messi comunali come autisti dei suoi famigliari; 3) farsi retribuire per una “sua scuola” di formazione, l’Ispi. In linea col suo proverbiale garantismo, “il Giornale dell’Archeologia” dimentica di aggiungere che il 9 agosto 1998 Esposito fu assolto perché: 1) si era assunto “doverosamente la responsabilità” di trattare un processo “in assenza di un collega”, “non certo (per) una disdicevole forma di protagonismo”; 2) “l’incolpazione non sussiste, in quanto è emerso da testimonianze acquisite che il messo comunale fungeva da autista al vicepretore onorario di Sapri, avv. F., suo difensore in una controversia di lavoro”; 3) la presunta scuola Ispi “non è una società di capitali, ma un’associazione culturale senza scopo di lucro” e “l’attività svolta dal dr.Esposito” è esclusivamente di “insegnamento”, senz’alcun coinvolgimento nei “profili gestionali dell’istituto”, incarico peraltro “ritualmente comunicato al Csm, da esso autorizzato ed espletato gratuitamente”. In due parole: tutto falso, nella migliore tradizione del Giornale modello Sallusti.
Il quale ora annuncia una grande iniziativa per l’estate intitolata “Controcorrente”, come la rubrica quotidiana che vi teneva in prima pagina il fondatore Indro Montanelli fino al 1994, quando fu messo alla porta dal “liberale” B. per affidarlo ai “liberali” alla Sallusti. “Controcorrente – spiega Zio Tibia – per questo Giornale è più di una parola, è la sua natura, lo spirito – mai tradito – che ha animato i suoi fondatori…Controcorrente sarà il titolo di un grande evento che si terrà a Sanremo dal 6 all’11 settembre quando porteremo sul palco del teatro del Casinò il meglio dei pensatori, degli intellettuali e dei politici dell’area moderata e liberale per rilanciare idee e progetti”. Il luogo prescelto, un casinò, è perfetto. Il parterre dei “liberali” sallustiani già possiamo immaginarlo. Vergogniamoci per loro.
il Fatto Quotidiano, 11 Agosto 2013