Un salto sulla sedia. Poi un altro. Il pensiero successivo è stato: dove ho messo la matita? Sulla mia scrivania un disordine opaco. La polvere della strada non asfaltata che porta a casa mia entra prepotente e con il caldo diventa più fastidiosa. Finalmente sottolineo la frase con la sensazione che il mio giorno da questo momento sarà diverso. Assumerà significato. Vedo una luce, qualcosa di fa chiaro. Potrei definire Delle donne, degli ebrei e di me stesso di Romain Gary (che raccoglie i suoi testi sparsi scritti tra il 1944 e il 1977) un antidoto a vari malanni, quali l’angoscia, il senso ineluttabile che il mondo degli esseri umani sia povero di umanità, troppe donne ammazzate. Una forma di apatia, senso di impotenza e di inutilità. Percepire in sé un senso di morte quieta, dove niente brilla e niente sussulta. Anche la sana indignazione tace. Se qualcuno è affetto anche solo da uno di questi malanni agostani legga questa raccolta di interviste, articoli e risposte a brevi questionari di Romain Gary pubblicato recentemente da Neri Pozza.
Prima di scrivere quali passaggi mi hanno ridato vita, dirò che Romain Gary è lo pseudonimo di Romain Kacev, nato in Lituania nel 1914 e morto suicida a Parigi il 3 dicembre 1980. Quel giorno si sparò indossando una bella vestaglia di seta che aveva acquistato per l’occasione; delicatamente aveva scelto il rosso, perché il sangue non si notasse troppo. Lasciò un biglietto: “Nessun rapporto con Jean Seberg. I patiti dei cuori infranti sono pregati di rivolgersi altrove”. La sua ex moglie, attrice americana e adolescente malinconica di Bonjour tristesse, era morta l’anno precedente, a 40 anni.
Di Gary avevo letto l’autobiografia La promessa dell’alba, dove l’umorismo, l’autoironia e la straordinaria leggerezza nulla tolgono alla drammaticità che si legge tra le righe della sua vita di bambino esule (Lituania, Varsavia, Nizza), poi di soldato come aviatore e di partigiano. Era l’unico figlio di un’ebrea russa scappata dalla Rivoluzione, una delle figure materne più straordinarie della letteratura. Donna volitiva, inguaribile ottimista sul futuro glorioso del figlio, sua madre si inventa modista, cappellaia, e non avendo qui sotto mano il libro (l’ho prestato) non ricordo quanti altri stratagemmi escogiti, non lasciando mai trapelare agli occhi del figlio le dure difficoltà che attraversano. Usando le sue doti drammatiche, lo esorta a battersi contro gli dei malvagi (tra cui il più terribile è quello della stupidità, seguito da quello delle certezze assolute) e lo fa con il suo spirito graffiante, la sua assoluta certezza nella bellezza della vita e nel futuro che li aspetta. La vedo mentre fuma il sigaro in Costa Azzurra dove finisce per gestire un albergo riuscendo per la prima volta a mettere da parte un po’di soldi, e mi sembra di sentire la sua voce roca e sensuale, degna della grande attrice di teatro che è stata. Non dirò del colpo di scena che chiude il libro.
E poi il miracolo di Madame Rose, che nel quartiere di Belleville cresce bambini figli di prostitute, tra cui Mohamed, detto Momo, voce narrante de La vita davanti a sé. Circondata da una comunità multietnica, dove la solidarietà nasce spontanea in mezzo alla miseria e con naturalezza ci si aiuta a vincere paure e umiliazioni, Madame Rose svetta per la sua brusca generosità, i delicatissimi rituali che inscena per non rimanere vittima del suo tragico passato, pieno di incubi che si ripresentano e contro i quali lei gioca a nascondino. Sorridevo di commozione leggendo e non mi capita spesso. Considerato il capolavoro di Gary, scritto con lo pseudonimo di Emile Ajar La vita davanti a sé vinse (per Gary è la seconda volta, la prima nel 1956 con Le radici del cielo) il prestigioso Goncourt. Lo scrittore mandò un parente a ritirare il premio e questi fu accolto con tutti gli onori, corteggiato e vezzeggiato da critici e giornalisti. Come devono essersi divertiti, sia il parente nella recita sia l’autore nell’ascoltare i resoconti della serata.
Solo dopo la morte di Gary si verrà a sapere che il signor Emile Ajar altri non è che proprio lui, lo scrittore che qualche anno prima del suo suicidio era stato dato per finito da gran parte della critica francese.
Ecco, lo sapevo. Per scrivere Delle donne, degli ebrei e di me stesso non mi è rimasto più spazio. Comunque partite dall’articolo “Amate mie donne”. E’ qui che ho saltato sulla sedia. Gary scrive di un originario principio femminile molto forte nel cristianesimo primitivo, un messaggio di tolleranza, perdono, empatia, “la voce del Cristo fu il primo vero richiamo alla ‘femminilizzazione’ del mondo. Un richiamo che venne tuttavia subito soffocato, ridotto al silenzio dai tuoni della mascolinità. Così, quasi da subito, ai valori affettivi si sostituirono quelli maschili legati al ‘machismo’, culto celodurista e virile al quale si ispira il novantanove per cento dei ‘veri uomini’, quelli che, per usare le parole dei legionari, sono ‘veri, duri, tatuati’. I danni, sia materiali sia spirituali, di questa mediocrità da dare e avere che è diventata la nozione di ‘virilità’, costituiscono una delle grandi sconfitte della nostra civiltà”. Una visione della storia condensata in sei righe, ma tremendamente attuale. La diffusione capillare e martellante di questo articolo di Gary (dai pulpiti delle chiese, nelle aule scolastiche, nei temi per la maturità, nel web) potrebbe essere un piccolo passo perché venga abolita la pena di morte per le donne che scelgono la libertà dagli uomini violenti.
Altra sottolineatura: nell’intervista “Un picaro moderno”, al pedante giornalista che gli domanda di dirimere le sue contraddizioni, dichiarandosi plebeo o aristocratico, Gary risponde così: “Aristocratico? Plebeo? Senza dubbio sono entrambe le cose. Odio la volgarità, ma la volgarità è legata secondo me alle idee di superiorità collettiva. E’ quando ci si crede ‘migliori degli altri’ perché si appartiene a una classe, a una nazione, a una razza che si è irrimediabilmente volgari”.
Voglio chiudere questo post con un sorriso, come sarebbe piaciuto a Gary. A un questionario dal sapore mondano e salottiero (“Il questionario di Marcel Proust”) a cui vengono sottoposti personaggi noti, lo scrittore risponde così:
Il suo ideale di felicità terrena?
Non ne sono a conoscenza
La sua occupazione preferita?
Non posso rivelarla
Stato d’animo attuale?
Ho appena preso un euforizzante. Bisogna aspettare una ventina di minuti