Romain Zaleski è un uomo spiritoso, e da questo articolo capirete anche che ha tutte le ragioni per essere allegro. Il 7 febbraio scorso, festeggiando il suo ottantesimo compleanno, ha dichiarato al Giornale di Brescia che lo celebrava: “Non mi sento affatto un finanziere, non ho conoscenze della finanza moderna”. Se non seguite con attenzione le cronache finanziarie faticherete a credere che questo sia il beffardo autoritratto dell’uomo a cui la maggiori banche italiane hanno prestato 6,7 miliardi di euro per giocare in Borsa. Proprio così: sei miliardi e settecento milioni di euro, pari a circa l’uno per cento di tutti i prestiti delle banche italiane a circa 2 milioni di imprese, secondo l’austero Sole 24 Ore. Un pasticcio che rischia di andare fuori controllo, ora che alla vigilia di Ferragosto le banche creditrici hanno cominciato a litigare.
Il pentolone sta per esplodere
Questa autentica follia ha cominciato a rivelarsi tale nell’autunno del 2008, con l’inizio della grande crisi finanziaria mondiale. Ed era inevitabile. Io ti presto 6 miliardi, tu compri azioni per 6 miliardi. Ma se le azioni cominciano a scendere? I tuoi pacchetti valgono sempre meno ma i debiti sempre di 6 miliardi restano. E così è successo. Le grandi banche, Intesa Sanpaolo e Unicredit in testa, avendo la coscienza sporca, hanno cominciato cinque anni fa a buttare la sporcizia sotto il tappeto, più precisamente sotto la celebre collezione di tappeti persiani di Zaleski. Speravano che le azioni risalissero. Invece sono andate sempre più giù e adesso siamo alla resa dei conti. Unicredit e Intesa vanno verso lo scontro. E il pentolone sta per esplodere.
All’origine ci fu uno scandaloso aggiramento dell’articolo 2358 del codice civile, che vieta alle banche di prestare soldi per comprare proprie azioni. Fingendo la mano sinistra di non sapere cosa faceva la destra, Unicredit ha prestato a Zaleski i soldi per comprare azioni di Intesa Sanpaolo, Intesa gli ha prestato i soldi per comprare Montepaschi, Montepaschi gli ha prestato i soldi per comprare Ubi Banca, e Ubi Banca gli ha prestato i soldi per comprare Mediobanca.
Zaleski, di origine franco-polacca, era noto in Francia come tesoriere del partito Udf del presidente Valery Giscard D’Estaing. Una trentina d’anni fa si è trasferito in Italia, e si è radicato tra Milano e Brescia, dove si è legato, con solidissima amicizia, al presidente di Intesa Giovanni Bazoli. Tutti hanno sempre pensato che l’acquisto del 5,9 per cento del capitale della prima banca italiana fosse decisivo per consolidare l’assetto proprietario che da sempre esprime la leadership di Bazoli. Ma Bazoli ha sempre negato con decisione qualsiasi sua influenza nelle scelte d’investimento di Zaleski. Che cinque anni fa era un vero re dei salotti, azionista importante, oltre che di Intesa, anche di Ubi, Montepaschi, Mediobanca, A2A e Assicurazioni Generali. Quando la crisi ha fatto sentire i suoi primi effetti, due banche straniere, la Royal Bank of Scotland e Bnp Paribas, si sono affrettate a battere cassa facendosi ridare i loro 1,6 miliardi di esposizione complessiva e se la sono data a gambe. Le banche italiane, in silenzio, hanno dato il loro assenso, forse pensando che era meglio non aprire polemiche. E si sono tenute il buco del giocatore di bridge che non sa niente di finanza.
L’inizio della guerra vera
Bazoli a quel punto ha preso Pietro Modiano, direttore generale di Intesa che era in rotta con l’amministratore delegato Corrado Passera, e l’ha mandato a fare il presidente della Carlo Tassara, la scatola di Zaleski che contiene i debiti e le azioni. Il programma era di vendere al meglio e con calma le azioni in portafoglio per recuperare quanto più possibile e limitare i danni delle banche. Dopo cinque anni di terapia il quadro è ancora sconfortante. I debiti si sono ridotti a 2,4 miliardi, ma le azioni in portafoglio valgono poco più di un miliardo. La Carlo Tassara non ha ancora fatto il bilancio 2012, perché non lo può fare: con i numeri attuali dovrebbe semplicemente portare i libri in tribunale, e quindi ha chiesto alle banche creditrici di trasformare parte dei crediti in capitale, per tenere in piedi la baracca.
E qui comincia la guerra vera. Perché se vi è sembrato incredibile che abbiano prestato 6 miliardi e rotti a una persona fisica per giocare in Borsa, vi sembrerà ancora più incredibile che in questi cinque anni gestiti da una successione di accordi di ristrutturazione del debito detti standstill (in italiano: io non ridò i soldi alle banche e le banche non me li chiedono) Zaleski ha continuato a comandare sulla Carlo Tassara attraverso i suoi uomini, guidati da Mario Cocchi. E così Modiano ha trovato continui ostacoli nel tentativo di vendere i pacchetti azionari. Tanto per dire, c’è ancora un 1,7 per cento di Intesa, che vale 400milioni, ma cinque anni fa si poteva vendere a un miliardo tondo se non si fossero temuti effetti secondari sugli equilibri della maggiore banca italiana.
E così, all’ennesima richiesta di proroga avanzata da Modiano, quelli di Unicredit si sono stufati. Il numero uno, Federico Ghizzoni, ha fatto scrivere una letteraccia in cui si intima in sostanza di smettere di menare il can per l’aia. C’è una spiegazione: all’inizio Intesa e Unicredit erano esposte per 1,7 miliardi a testa. Oggi Intesa è ancora fuori di 1,2 miliardi, Unicredit solo di 500 milioni. E il credito della banca di Ghizzoni e quasi totalmente assistito da garanzie reali, mentre quello di Intesa è senza garanzie per quasi un miliardo. Già, la banca di Bazoli (che però ha sempre detto di non saperne niente, scaricando la responsabilità su Passera) ha dato i soldi a Zaleski senza chiedere garanzie. E adesso rischia di restare con il cerino in mano. Per questo Ghizzoni vuole chiudere alla svelta la partita, Bazoli no, perché rischia di dover mettere in bilancio un buco di 800 milioni. Zaleski è dunque il nome della prossima bomba che il capitalismo di relazione sgancerà sulla già malconcia economia italiana e sulle sue banche.
Twitter @giorgiomeletti
Dal Fatto Quotidiano del 14 agosto 2013