Per un’immagine a risoluzione più alta ci siamo rivolti ad Orbis, nel cui database vengono raccolti i dati grezzi dai bilanci delle imprese in vari paesi, per essere rielaborati in modo da renderli omogenei. Sono i dati usati dagli analisti per i confronti internazionali o per valutare la competitività delle aziende rispetto ai concorrenti nel settore in cui operano. In estrema sintesi, abbiamo estratto i dati delle circa 800 aziende manifatturiere (codici 31, 32 e 33 della classificazione NAICS) con il maggior numero di addetti in Germania, Francia e Italia nell’anno 2011 (i dati 2012 saranno disponibili fra qualche settimana). I valori sono stati poi aggregati come se le aziende di ciascun paese formassero un unico conglomerato. Va precisato che per selezionare le 800 maggiori aziende si sono fissate soglie diverse: 500 addetti in Germania, 350 in Francia e 300 in Italia. Se per l’Italia avessimo scelto il limite di 500 addetti avremmo estratto un campione poco rappresentativo. Nel campione così selezionato il totale degli occupati è risultato di circa 2,4 milioni in Germania, 1,56 in Francia e 1,4 in Italia. Va precisato che non tutte le poste di bilancio sono disponibili per tutte le imprese, quindi il campione può differire di poche decine di unità, ma l’effetto distorsivo è trascurabile.
I dati proiettano contorni inediti delle differenze tra le imprese che trainano l’economia nei tre maggiori paesi di Eurolandia. Iniziamo dalla profittabilità: in Germania il RoE (cioè il ritorno sul capitale, calcolato su profitti e perdite al lordo delle tasse) raggiunge un sostanzioso 19,71%, mentre in Francia scende al 13,65% ed in Italia ad un misero 7,25%. In sostanza nelle grandi imprese tedesche il capitale rende quasi il triplo che in Italia. Dato confermato anche dai margini di profitto finali che si fermano ad un non certo esaltante 4,9% in Germania, un anemico 3,0% in Francia e un risibile 1,6% in Italia. Per un investitore è di gran lunga preferibile un Bot alla quota di un’impresa italiana.
Anche l’EBIT, il ricavo al lordo di interessi e tasse (che variano da paese a paese), mostra che le imprese tedesche sono in testa con un margine del 5,27%, quelle francesi del 3,24% e quelle italiane del 2,62%.
L’angolatura su cui si intrecciano infinite diatribe politiche è la produttività del lavoro: il profitto per addetto nelle imprese medio-grandi tedesche è di 20mila dollari, 14mila in quelle francesi e solo 8mila in Italia. Insomma, in Germania le imprese medio-grandi hanno un’efficienza due volte e mezzo superiore alle nostre. Scavando ancora tra i dati Orbis, arriva una sorpresa. I ricavi operativi per addetto nei tre paesi sono abbastanza simili: 400mila in Germania, 476mila in Francia e un non disprezzabile 465mila in Italia. Allora come si spiega la differenza di profitto per addetto? Non deriva dal costo del lavoro, come qualcuno potrebbe ipotizzare: in Germania il costo del lavoro per addetto è 65mila dollari, in Francia sale a 73mila, e in Italia cala a 56mila. Addirittura la dotazione di capitale di rischio per addetto è molto più alta in Italia, 498mila dollari, rispetto ai 281mila nelle imprese tedesche, e ai 377mila in quelle francesi.
Quali conclusioni emergono dal puzzle? Innanzitutto il capitale di rischio in Italia praticamente non rende. Il tessuto produttivo sembra intrappolato in settori a basso valore aggiunto dove, nonostante i salari bassi, la concorrenza sul prezzo comprime i profitti. Per risalire nella catena del valore a livello globale servono investimenti in ricerca, nuove tecnologie, nuovi impianti e formazione. In Italia con le banche alla canna del gas, i capitali non si trovano (o si trovano solo per i parassiti tipo Alitalia o Ligresti). Bisognerebbe attirarli dall’estero. Ma quale imprenditore straniero (senza padrini politici) informato sul regime fiscale, la burocrazia, il sistema (il)legale, le infrastrutture, il pizzo e altri aspetti poco edificanti, correrebbe un tale rischio?
Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2013