Trattato di pace con Israele. Petrolio. Cooperazione contro il terrorismo. Sono questi i tre pilastri che hanno per anni sostenuto la politica dei presidenti Usa nei confronti dell’Egitto e che continuano a sostenere la strategia di Barack Obama in queste ore di violenti scontri al Cairo. Le diverse linee della politica americana sono del resto riassumibili in una sola parola: “stabilità”, che è ciò che ha lasciato intoccati il miliardo e trecento milioni di dollari di aiuti militari degli Stati Uniti all’Egitto, nonostante la politica di brutale repressione messa in atto dall’esercito del Cairo.
Gli Stati Uniti “sono guidati dal proprio interesse nazionale” nella duratura relazione con il governo egiziano, ha spiegato Obama dopo l’esplodere degli scontri. Quest’“interesse nazionale” risiede soprattutto negli Accordi di Camp David del 1978, che portarono al trattato di pace egitto-israeliano garantito dagli Stati Uniti. Washington continua a ritenere quegli accordi fondamentali sia per la sicurezza di Israele che per la stabilità di tutta l’area. Sono proprio gli Accordi di Camp David a definire l’ammontare dell’aiuto americano all’Egitto; ragion per cui rimettere in discussione quella somma significherebbe rimettere in discussione tutta l’architettura politico-diplomatica-militare Usa nell’area. Cosa che nessun presidente americano, tanto meno Obama, ha mai voluto fare.
La sicurezza d’Israele resta d’altra parte fondamentale nella strategia che in queste ore sta guidando Obama. Diversi funzionari del dipartimento di Stato hanno rivelato che nelle scorse settimane il governo israeliano ha più volte chiesto agli Stati Uniti di non tagliare gli aiuti militari al Cairo. Una diminuita presenza americana in Egitto porterebbe all’accresciuta influenza al Cairo di Paesi non così amici di Israele, come per esempio l’Arabia Saudita. Oltre a questo, vanificherebbe gli sforzi congiunti tra Israele ed esercito egiziano nel contrastare l’azione di Al Qaeda e di altri gruppi islamisti nel Sinai. Questa è del resto l’altra ragione che rende del tutto improbabile una rottura delle storiche relazioni tra Egitto e Stati Uniti. Washington ha assoluto bisogno della cooperazione militare egiziana nella lotta al terrorismo e nelle guerre americane.
Gli aerei da guerra Usa – quelli con destinazione l’Afghanistan e quelli utilizzati in operazioni antiterrorismo in Medio Oriente e nel Corno d’Africa – possono transitare nello spazio aereo egiziano in modo praticamente automatico, senza bisogno del preavviso con cui le forze militari Usa devono allertare le autorità di altri Paesi, anche alleati degli Stati Uniti. La stessa priorità è data alle navi da guerra americane nel Canale di Suez. Quando, nel 2003, ai tempi della guerra in Iraq, la Turchia rifiutò ai mezzi militari americani il passaggio sul proprio territorio, l’Egitto concesse immediatamente il passaggio alle portaerei Usa attraverso il Canale di Suez. E proprio il Canale di Suez deve restare necessariamente aperto e operante er far passare una porzione significativa del fabbisogno mondiale di petrolio.
Questo è dunque “l’interesse nazionale” di cui parla Obama quando definisce la strategia Usa di fronte alla crisi egiziana. Quest’“interesse nazionale” è sopravvissuto agli anni della feroce dittatura di Mubarak e ora alla repressione dell’esercito nei confronti dei manifestanti. Ciò non significa che l’amministrazione Usa possa continuare ad appoggiare l’esercito del Cairo come se nulla fosse. Proprio per questo, nelle scorse settimane, gli Stati Uniti hanno prima sospeso la consegna di quattro F-16 e poi le operazioni militari congiunte con l’esercito egiziano, previste per il mese prossimo. Un modo, per l’amministrazione Obama, di mettere in allerta i militari del Cairo e lanciare un messaggio: ulteriori, più profonde violazioni dei diritti umani non saranno tollerate (come è successo, nel passato, con Filippine, Pakistan e Indonesia, con cui gli Sati Uniti hanno allentato i rapporti militari in nome di una repressione difficile da giustificare).
Resta comunque, per l’amministrazione, un dilemma di difficile soluzione. Se gli Stati Uniti rivedono le proprie relazioni con l’Egitto, in seguito alla repressione di questi giorni, rischiano di buttare all’aria una complessa architettura politica e militare durata decenni. Se l’amministrazione Obama mantiene il proprio appoggio ai militari egiziani, rischia di attirarsi le critiche internazionali e soprattutto gettare l’Egitto in una spirale di violenze di cui non si intravvede la fine. L’unica sperabile soluzione, a questo punto, resta un veloce ritorno ad un ordine almeno apparente. Come ha detto, anonimamente, un funzionario dell’amministrazione Usa al New York Times: “Le violenze sono intollerabili. Le possiamo accettare soltanto se finiscono, e molto presto”.