Alla kermesse di Rimini il presidente del Consiglio "seduce" i ciellini puntando sull'abbraccio col centrodestra e sulla "forza fecondatrice dell'incontro". E lancia la sfida per la segreteria del partito, in contrapposizione al sindaco "rottamatore"
Al meeting di Rimini Enrico Letta non ha tenuto un discorso di circostanza, ma ha iniziato la sua campagna elettorale. Per il congresso del Pd, come minimo. Con Giorgio Napolitano come divinità protettrice, la base di Comunione e liberazione come elettorato in cerca di riferimenti e Matteo Renzi come diretto avversario. Nessun riferimento a Silvio Berlusconi, se non contingente, obliquo, “gli italiani puniranno chi anteporrà interessi di parte e personali all’interesse comune che è l’uscita dalla crisi”. Parole che valgono sia per il Cavaliere che per i renziani, sempre incerti tra fedeltà alle larghe intese e desiderio di contarsi nelle urne.
Letta ha fatto un vero discorso programmatico che si può riassumere così: basta con l’idea che la politica sia contrapposizione tra due fronti opposti, le larghe intese sono un metodo che può durare, secondo l’antica tradizione italica di trasformare il provvisorio in definitivo. Giorgio Vittadini, il presidente della Fondazione per la Sussidiarietà (una delle istituzioni di Cl), nella conferenza stampa di fine giornata, commenta così l’intervento di Letta: “E’ una scelta di campo, non per l’inciucio, ma per una collaborazione in chiave europea. Siamo in una emergenza come nel 1946”. C’è un livello di lettura del discorso di Letta che è quello ciellino: il premier sa come compiacere il suo pubblico, cita don Giussani (i ciellini non dimenticano che era presente al funerale, assieme a Pier Luigi Bersani, nel 2005), il salmo ottavo, il trionfo della democrazia liberale sul comunismo (anche se sbaglia le date e più volte parla di quando c’era l’Urss “13 anni fa”), ripete più volte la parola-totem dei ciellini, cioè sussidiarietà, rilegge l’intervento di Napolitano per l’accettazione del secondo mandato come una citazione e conseguenza delle parole del capo dello Stato durante la sua visita al meeting nel 2011.
Ma Letta è più interessante leggerlo in una chiave tutta interna al centrosinistra. Di fronte all’inarrestabile avanzata di Matteo Renzi, che proclama cambiamento, rottamazione e, soprattutto, vittoria, Letta offre altro. Non è uomo di idee forti, il premier, ma propone un metodo che ai ciellini piace moltissimo: “La forza fecondatrice dell’incontro vince sempre sul conflitto” e, prevenendo le obiezioni, “l’incontro non è annullamento della propria identità, l’incontro fa paura solo a chi è incerto dei propri valori”. Renzi propone il rischio dello scontro frontale, Letta la scommessa del dialogo, come direbbero i ciellini. Se volete un Pd che può vincere, ma può anche perdere, scegliete Renzi, se preferite un partito dialogante, mediatore, che governa senza vincere e abbraccia il centrodestra invece che respingerlo, allora scegliete Letta. I ciellini sono il pubblico ideale per questo messaggio.
La presidente della Fondazione Meeting Emilia Guarnieri apprezza soprattutto “il passaggio sulla paura che sia l’altro a vincere” e “la decisione di non voler interrompere questo percorso di speranza”. Giorgio Vittadini spiega che Cl non si schiera apertamente, che “le scelte competono al singolo”. Ma sottolinea che “l’amicizia con Letta nasce da molto lontano, era uno dei capi dell’intergruppo sulla sussidiarietà”. Con Renzi l’approccio è molto più cauto, per il momento al meeting c’è soltanto, come ambasciatore del sindaco di Firenze, il deputato Dario Nardella. E’ chiaro che per Cl sarebbe molto meglio sostenere un Letta moderato e dialogante (purché vincente) piuttosto che legarsi ai reduci berlusconiani nella nuova Forza Italia ad alto rischio flop. Letta è consapevole che non si vince di sola tattica. Che i ciellini li ha già conquistati. E ora bisogna neutralizzare Renzi su altri piani. E ci prova, pur con la differenza di carisma evidente tra i due: il premier ruba al sindaco la trinità “terra, bellezza, tempo”, evoca muretti sardi come metafora dell’Italia, parla dell’Italia come di un Paese da riscoprire: “’Da mio nonno agronomo ho tratto l’insegnamento che gli italiani fanno le cose belle che durano”. E’ il registro che Renzi sta usando da mesi, traducendo in politica le intuizioni di marketing del suo amico e consigliere Oscar Farinetti, l’imprenditore di Eataly.
Il premier parla molto di Europa, di ripresa, si prende i meriti di uno spread a 230 (che sui mercati tutti attribuiscono alle politiche delle banche centrali, più che al governo), inizia già a far pesare la sua competenza, trasforma quattro mesi da premier in una fonte di prestigio e autorevolezza internazionale con cui il sindaco di Firenze non potrebbe competere. Quello che conta è conquistare l’elettorato di centrodestra deluso da Berlusconi che alle ultime elezioni si è sparpagliato tra Beppe Grillo e astensionismo. Renzi aveva iniziato a sedurli con un approccio berlusconiano, quello della marcia verso la vittoria, dell’uomo solo al comando che forza le burocrazie dei partiti e conquista il potere piegando il sistema. Letta risponde con mosse avvolgenti, perfettamente democristiane, di inclusione invece che di contrapposizione. In fondo Renzi deve ancora dimostrare tutto. Letta, al pubblico di Cl, offre già dati concreti: due dei leader del movimento, Mario Mauro e Maurizio Lupi, sono già al governo. Sullo sfondo c’è però l’innominabile. Silvio Berlusconi. Che forse sarà davvero politicamente morto, ma nessuno osa neppure citarlo. Non si sa mai cosa può ancora combinare.