Strani ladri entrano nell’abitazione di un magistrato della Dda impegnato nella lotta contro il clan dei Casalesi, rovistano cassetti, armadi, mobili mettendo tutto a soqquadro e portano via delle foto che lo ritraggono con i suoi familiari. Accade a ridosso di Ferragosto a Portici, comune che dista pochi chilometri da Napoli. E’ una notizia che inquieta ma non trova tanto spazio nelle cronache dei giornali.
Il clima è cambiato. Ed è una constatazione. Da anni, l’attacco continuo e irresponsabile contro un potere dello Stato: quello giudiziario ha scavato un profondo solco nella coscienza collettiva. Non mi meraviglierei affatto, se rivivessimo una stagione di autobombe contro magistrati e giudici. Sono parole che suonano pesanti e antipatiche. E’ vero. Rabbrividisco ma lo temo. Il “non lasciamoli soli” scandito e urlato dopo le stragi del 1992 è solo un ricordo sbiadito.
Nonostante i durissimi colpi inferti dalla magistratura contro le criminalità organizzate, i servitori dello Stato oggi sono più soli che mai. Non è la prima volta che il giovane magistrato Catello Maresca, questo il suo nome, finisce nel mirino. Il clan dei Casalesi lo vorrebbe morto. Avete letto bene, morto. Lui con caparbietà, intuito e furbizia investigativa è riuscito a stanare padrini del calibro di Michele Zagaria alias Capastorta, e Antonio Iovine, ‘o Nennillo, da decenni latitanti. Pochi mesi fa in carcere gli inquirenti registrarono un colloquio tra un detenuto (il vivandiere di Zagaria), e un suo parente: “Può essere che nel frattempo che faccio l’appello muore Maresca. Voglio vedere cosa succede. Muore di malattia per cazzi suoi”.
Non è il primo avvertimento per Maresca, anzi. Nell’aprile di due anni fa Giuseppe Setola, ‘o Cecato, il killer più spietato dei Casalesi, mentre si trovava nell’aula-bunker di Santa Maria Capua Vetere dice rivolto proprio al Pm “Teniamo tutti famiglia: dottore Maresca, voi dovete lasciare stare la famiglia mia!”. Anche allora come adesso del furto in casa furono in pochi a parlarne. Insomma, in terre di camorra, di mafia, n’drangheta sembra “normale” che un magistrato per fare solo il proprio dovere debba rischiare la pelle. Negli stessi giorni dei messaggi intimidatori rivolti al “giudice ragazzino” il ministero della Giustizia – guidato all’epoca prima da Angelino Alfano e poi da Nitto Palma, gli stessi che oggi manifestano solidarietà al pregiudicato Silvio Berlusconi e si schierano contro la magistratura- con un provvedimento tagliarono tutto il tagliabile, con il risultato che la Procura di Napoli non aveva più i soldi per pagare gli straordinari agli uomini che guidavano le auto blindate.
Addirittura magistrati in prima linea come appunto – lo stesso Maresca – se finivano di lavorare oltre l’orario d’ufficio dovevano tornare a casa a loro rischio e pericolo. Ci sono accadimenti, messaggi, avvicinamenti che fanno abbassare sempre di più l’asticella. E’ un attacco generalizzato nel mirino finiscono chi combatte in prima linea mettendoci la faccia: a Palermo Nino Di Matteo, a Reggio Calabria Nicola Gratteri. Oltre alla minaccia c’è poi il turpiloquio del politico di turno pizzicato o condannato.
E’ un attacco a viso aperto e in grande stile, assist dal di dentro per clan e cosche pronte con i loro gruppi di fuoco a colpire al momento giusto. Le mafie aspettano le giuste condizioni per alzare la posta in gioco. A maggio dell’anno scorso nel giorno del suo quarantesimo compleanno giunge puntuale l’ennesima minaccia di morte da parte della camorra. Da allora Catello Maresca per difendersi adotta il metodo di un suo ideale maestro il giudice Paolo Borsellino: “Ho pensato di comprare un quaderno per scrivere ogni giorno quello che vedo, quello che so: le complicità, i tradimenti, i sacrifici di tanti onesti. Mi è venuta voglia di scrivere un’agenda rossa”.
Mi sento solo di scrivere: Non lasciamoli soli, sarebbe sgradevole sentirsi complici.