Dopo il bagno di sangue iniziato mercoledì 14 agosto, fatto anche con armi italiane, occuparsi di ciò che accade alla stampa che opera in Egitto potrebbe sembrare irrilevante.
Però, militari e Fratellanza musulmana hanno scoperto di avere qualcosa in comune: l’odio per la narrazione delle loro azioni. Allora, prendete cinque minuti del vostro tempo per leggere questo post.
Da quando, il 3 luglio, l’esercito ha deposto il presidente Mohamed Morsi, i media considerati favorevoli alla Fratellanza musulmana sono stati sistematicamente presi di mira. Dopo gli arresti della prima ora e la chiusura delle redazioni di diverse emittenti televisive, il totale dei giornalisti imprigionati ha continuato a salire arrivando a oltre 50.
Nella repressione del 14 agosto, sono morti quattro giornalisti. Habiba Abdel Aziz, corrispondente dal Cairo per Gulf News, è stata colpita a morte da un cecchino dell’esercito, appostato su un tetto. Ucciso anche Michael Deane, cameramen di SkyNews UK così come altri due reporter egiziani.
Decine di giornalisti si sono visti puntare le armi in faccia e sono stati costretti a fare marcia indietro dopo aver lasciato ai militari i loro strumenti di lavoro.
A sua volta, la Fratellanza musulmana non ha mancato di mostrare la consueta intolleranza verso chi non ne condivide le idee. A inizio agosto Amnesty International aveva denunciato casi di tortura compiuti dai sostenitori di Morsi. Casi che sono proseguiti anche negli ultimi giorni.
Nel mirino della Fratellanza sono così finiti giornalisti che si stavano limitando a fare il loro lavoro, ossia seguire le manifestazioni convocate dai sostenitori di Morsi.
Giorni prima della repressione del 14 agosto, venerdì 6, il giornalista del quotidiano Veto Mohamed Momtaz è stato circondato da una folla di uomini mentre stava seguendo un corteo della Fratellanza diretto a piazza al-Nahda. Gli hanno strappato la macchina fotografica, lo hanno caricato su un’automobile e lo portato all’interno di una delle tende montate nella piazza. Qui, lo hanno costretto a spogliarsi e lo hanno picchiato, urlandogli che era una spia. Ha trascorso tre ore in un pronto soccorso prima di essere dimesso.
Aya Hassan, giornalista di Youm7, è stata bloccata mentre stava fotografando l’aggressione a Montaz. Stesso copione: macchina fotografica strappata, “accompagnamento” fino a una tenda di piazza al-Nahda. Da qui in avanti le è andata peggio rispetto a Montaz. L’hanno bendata, perquisita, palpata e picchiata. L’hanno obbligata a dichiarare la sua affiliazione politica e a “rivelare” i nomi delle persone che conosceva nel ministero dell’Interno, delle forze armate e del movimento anti-Morsi. Ha cercato invano di spiegare che per una giornalista è normale avere contatti dentro e fuori le istituzioni. Troppo difficile da capire, evidentemente. Allora l’hanno trascinata per i capelli in una tenda accanto. Un uomo l’ha presa a calci in faccia. Le hanno buttato addosso uno straccio pieno di sangue minacciandola che avrebbe fatto la stessa fine di quello che l’aveva preceduta, ossia Montaz. Infine, l’hanno lasciata andare.
Non si contano i casi di giornalisti, egiziani e internazionali, che se la sono cavata solo col sequestro della memoria della loro telecamera o macchina fotografica o col divieto di mandare in onda un servizio. Una giornata di lavoro buttata ma almeno sono usciti incolumi dalle manifestazioni della Fratellanza.