La privatizzazione dell'ente pubblico che gestisce i risparmi postali degli italiani ha tutelato gli interessi degli azionisti forti delle banche. Mentre una gestione davvero pubblica darebbe all’Italia uno strumento di politica economica
Il 14 giugno del 2011 oltre 26 milioni di italiani dichiarano che l’acqua non deve sottostare alle leggi del mercato, chiedendone una gestione pubblica e partecipata. A due anni di distanza poco o nulla è stato fatto. Il ritornello è sempre lo stesso: non ci sono i soldi. La crisi colpisce, dobbiamo accettare sacrifici e piani di austerità per rimettere in sesto i conti pubblici. Ma è proprio vero che i soldi non ci sono? La Cassa Depositi e Prestiti è l’ente che raccoglie il risparmio di milioni di italiani tramite i libretti di risparmio e i buoni fruttiferi delle Poste Italiane. Una raccolta che supera i 230 miliardi di euro con una liquidità di oltre 140 miliardi. Per decenni la Cassa, sotto il diretto controllo del ministero del Tesoro, ha avuto il compito principale di sostenere gli enti locali per investimenti di lungo periodo, in particolare tramite prestiti a condizioni favorevoli rispetto ai tassi di mercato.
La svolta del 2003
Nel 2003 la svolta. Da ente di diritto pubblico la Cdp viene trasformata in una Spa. Il governo mantiene la quota di maggioranza ma una parte del capitale azionario passa nelle mani di una sessantina di fondazioni bancarie. Il cambiamento non è solo formale: una Spa non ha come obiettivo centrale l’interesse pubblico ma la redditività e la remunerazione del capitale. Una remunerazione che permette alle fondazioni bancarie di portare a casa dividendi anche superiori al 10% annuo. Nel contempo i tassi di interesse per i prestiti agli enti locali si allineano a quelli di mercato. Un problema per Comuni e Regioni ma un bel vantaggio per le banche private che possono competere con la Cdp nell’enorme mercato dei finanziamenti alla pubblica amministrazione. Per pura coincidenza parliamo delle stesse banche private nelle quali le fondazioni bancarie, entrate nel capitale di Cdp, continuano a detenere pacchetti azionari rilevanti.
Nello stesso periodo la Cdp apre a una serie di nuove operazioni. Sostegno alle piccole e medie imprese e all’export italiano assieme alla Sace, fondi di garanzia per le opere pubbliche, assunzione di partecipazioni in imprese strategiche quali Eni, Terna, Snam rete gas e in una pluralità di fondi di investimento. Tra questi F2i, il fondo italiano per le infrastrutture con un portafogli di 1,85 miliardi di euro, di cui Cdp detiene una quota vicina al 16%, in compagnia di diverse banche. Tramite la partecipazione nella multiutility Iren, F2i ha interessi diretti nella gestione dei servizi idrici di alcune province. Che si possa intravedere un leggerissimo conflitto di interesse rispetto alla richiesta di una gestione pubblica dell’acqua emersa dai referendum?
Una finanza pubblica
Negli scorsi mesi è nato il “Forum per una nuova finanza pubblica e sociale”. Una campagna di pressione e informazione che pone tra i suoi obiettivi la ripubblicizzazione della Cdp per riportarla al servizio dell’interesse generale e non della remunerazione del capitale. Un ruolo riconosciuto dallo stesso decreto di trasformazione in Spa, che chiarisce che “i finanziamenti della Cdp rivolti a Stato, Regioni, Enti Locali, enti pubblici e organismi di diritto pubblico, costituiscono servizio di interesse economico generale”.
Dall’altro lato parliamo però di una sorta di merchant bank, tanto che in una nota del 2008 la Banca d’Italia prevede l’assoggettamento della Cassa al regime di vigilanza informativa previsto per le banche. Ancora, la Cdp è al di fuori del perimetro del debito pubblico, permettendo allo Stato di “giostrare” su alcune partite contabili, come è avvenuto vendendole Fintecna, Sace e Simest e incassando 10 miliardi di euro. Formalmente il debito pubblico è diminuito, ma con una procedura definita dal Sole24Ore “un inganno pericoloso”, una sorta di partita di giro tra lo Stato e una società da esso controllata. La Cassa Depositi e Prestiti è quindi una sorta di ibrido tra un ente pubblico e uno privato. Una gestione pubblica e partecipata, facendo uscire le fondazioni bancarie, permetterebbe, al contrario, all’Italia di dotarsi di uno strumento di politica economica e per un diverso modello industriale, energetico e di sviluppo fondato sulla sostenibilità sociale e ambientale. È in questa direzione che si muove il Forum, ponendo come priorità il finanziamento degli enti locali per gli investimenti nella gestione dei servizi idrici, come richiesto dal risultato referendario.
I problemi per Comuni e Regioni sono anche altri, a partire dallo scriteriato patto di stabilità che ne limita fortemente le possibilità di investimento. Rimane il fatto che differenti percorsi sarebbero possibili se ci fosse la volontà politica di attuarli, come dovrebbe fare un governo che intendesse rispettare la volontà del 95% degli elettori. Certo, tutto questo a meno di non essere convinti che “i due referendum sull’acqua rappresentano – purtroppo – un pessimo esempio di abuso di una importante istituzione democratica quale è il referendum abrogativo”. Testuali parole di Franco Bassanini, attuale presidente della Cassa Depositi e Prestiti.
*Presidente della Fondazione Culturale Responsabilità Etica, che compone la rete di Banca Etica
da Il Fatto Quotidiano del 14 agosto 2013