Quando ho saputo che, alle prossime elezioni presidenziali cilene, nel novembre prossimo, Michelle Bachelet, candidata della sinistra, già “Presidenta” del Paese fino al 2010, affronterà un’altra donna, della destra stavolta, Evelyn Matthei, la memoria mi ha lentamente riportato a galla l’immagine di una signora bionda, estroversa, che avevo incontrato un caldo pomeriggio dell’estate australe del 2006, in un austero e oscuro ufficio del Senato a Santiago. Evelyn, appunto.
In quel periodo della mia vita vivevo in Sudamerica. Dopo l’elezione della Bachelet, così sorprendente in un Paese di tradizione maschilista, per di più con il suo passato, mi ritrovai per qualche mese in Cile a scrivere un libro, poi pubblicato da Sperling & Kupfer con il titolo “Michelle Bachelet, la primavera del Cile”. Mi appassionai alla storia di quella donna, che ai tempi di Allende era stata una studentessa di medicina, figlia di un generale dell’Aeronautica, diventata simpatizzante socialista. In un certo senso, agli inizi degli anni Settanta, in quella fuga in avanti del Cile, Michelle trascinò nella sua passione politica anche la madre, la mitica signora Angela, con la quale mi ritrovai a discorrere a lungo, tanti anni dopo, nel suo semplice appartamento di Santiago, e il padre, il generale Alberto. Alberto e Angela non erano comunisti, ma neppure “sinistrorsi”, non erano impegnati in un partito politico. Avevano semplicemente i loro valori, credevano nella giustizia. Ma quegli anni turbolenti e una figlia entusiasta li portarono ad allinearsi con Allende, quasi senza rendersene conto. Nel mio libro raccontai quell’avventura umana, molto intima, personale, dai risvolti tragici, inaspettati per i protagonisti, perché Alberto, subito dopo il golpe dell’11 settembre 1973, venne sbattuto in carcere e morì più tardi in carcere, a causa delle torture subite. Angela e la figlia Michelle, dopo un po’ di tempo, finirono nel terribile lager di Villa Grimaldi. Poi l’esilio, il ritorno in patria. E l’ascesa politica del medico Michelle Bachelet, su dal nulla, una persona normale (comunque single con tre figli a carico in tempi in cui il Cile era ancora più tradizionalista di oggi…): un exploit avvenuto grazie all’appoggio della base, non della nomenclatura del partito, che la Bachelet non l’aveva proprio calcolata. Fino a diventare Presidente.
Nel 2006 a Santiago incontrai la Bachelet, ovviamente, alla Moneda, il palazzo presidenziale. Ma anche molte altre persone. Non solo di sinistra. Volevo capire come un Paese democratico e all’apparenza normale fosse diventato un mattatoio, dopo il golpe del’11 settembre 1973. Incontrai anche Evelyn Matthei. Non fu facile convincerla a concedermi un’intervista su Michelle Bachelet, già allora sua avversaria politica. All’inizio il suo fu uno sfogo, giù a dire che la Bachelet non era in grado di gestire un Paese, che non aveva esperienza. Era la litania appresa da tutti gli esponenti della destra, ripetuta pedissequamente ogni volta, faceva parte del gioco politico. Poi iniziammo a parlare di quei terribili anni Settanta. Anche Evelyn era figlia di un generale dell’Aeronautica, Fernando Matthei. Quando erano piccole giocavano assieme, perché le loro famiglie vissero nella stessa base militare, nel Nord del Cile. Scoprii che si frequentavano, trascorrevano sere assieme, fine settimana a fare grigliate. L’11 settembre 1973 Evelyn era a Londra, perché il padre era stato distaccato all’ambasciata cilena in quella città. Aveva la passione del pianoforte e si ricordò dell’imbarazzo, quando dovette affrontare gli sguardi dei compagni del corso di musica, subito dopo il golpe. In seguito il generale Matthei, rientrato a Santiago, si accodò a Pinochet. Ed Evelyn, da giovane, è stata una sostenitrice di Pinochet. Mi disse che senza Pinochet la situazione in Cile sarebbe stata ancora peggiore. Che ci sarebbe stata una vera guerra civile, ancora più morti. A quel punto le chiesi cosa ricordasse del padre della Bachelet. “Era molto amico del mio – mi disse -, veniva spesso a casa nostra. Erano simili: divoratori di libri, amanti della musica classica. Gli volevo bene, non è ipocrisia. Era bello. Non ho mai voluto leggere niente sulla sua prigionia, su cosa gli abbiano fatto. Forse sbaglio, lo so. E’ che me lo voglio ricordare come era, con il suo sorriso”. Subito dopo si commosse. Aveva gli occhi pieni di lacrime. Non me l’aspettavo, perché lei, fino a quel momento, era stata molto sicura di sé. Eravamo solo io e lei in quell’ufficio, non avevamo un “pubblico”. Era sincera, senza dubbio, quasi imbarazzante. L’intervista finì lì.
E’ sempre doveroso cercare di capire chi furono i cattivi e i buoni. Pure in Cile. E per il Cile di quegli anni, fra Allende e Pinochet, è chiarissimo, almeno per me, chi furono i cattivi e chi furono i buoni. Ma poi la storia è sempre più complessa, mescola contraddizioni, sentimenti. Persone che sono state vicine, che si sono amate, si ritrovano gli uni contro gli altri. E’ la cosa più triste che possa capitare. A tutti, vinti e vincitori.