Nella tragedia di Moritz Erhardt – il 21enne stagista tedesco morto a Londra dopo tre giorni di lavoro consecutivo – ci sono almeno tre elementi su cui riflettere.
Il primo è evidentemente il paradosso di un capitalismo che divora se stesso. Il ragazzo, che pare soffrisse di epilessia ed è collassato nella doccia alle sei di mattina, doveva essere certamente contento di poter trascorrere l’estate in stage presso la sede londinese di Bank of America/Merril Lynch. Eppure, proprio quell’ingranaggio di cui un giorno avrebbe voluto essere parte, lo ha schiacciato impietosamente.
Il secondo è che una categoria, quella di chi lavora nel mondo della finanza, viene allo scoperto, inaspettatamente, con le proprie debolezze. A nessuno piacciono i caimani delle Borse, la cui avidità è stata immortalata al cinema in Wall Street di Oliver Stone e la cui cattiva fama è – anche giustamente – cresciuta in tempi di crisi finanziaria. Eppure, in quel mondo ci lavorano delle persone che possono non sopportare altissimi livelli di stress. Ovvero, semplicemente delle persone con i loro difetti e i loro limiti umani.
Ma soprattutto, il 21enne Moritz era uno studente. E uno stagista. Come è possibile che nessuno si sia fermato un attimo a pensare che 72 ore consecutive di lavoro non sono fisicamente sostenibili? Come è possibile che nessuno abbia supervisionato il suo orario e i suoi ritmi di lavoro?
Ma soprattutto, e a rischio di essere perfino retorici: come è possibile che nell’ingranaggio devoto al profitto si sia persa fino a questo punto la dimensione umana?