Tutti contro Bill de Blasio. Potrebbe essere sintetizzata così la campagna elettorale dei candidati democratici alla carica di sindaco di New York. A meno di un mese dalle primarie democratiche, de Blasio – il candidato più liberal tra quelli in pole position per la nomination – guadagna consensi ed è diventato il bersaglio polemico preferito degli altri democratici: Christine Quinn, Anthony Wiener, William Thompson. “Smettila di mentire alla gente di New York”, ha detto Thompson a de Blasio durante un recente dibattito televisivo. “Sei bravo a dire agli altri cosa fare, ma non riesci a combinare nulla”, gli ha rinfacciato la Quinn. La furia degli attacchi rivela i timori dei rivali e mostra una semplice verità. Che potrebbe essere proprio lui, Bill de Blasio, la vera sorpresa di un’elezione da decenni mai così combattuta e incerta.
De Blasio, 52enne italo-americano con casa a Brooklyn e un passato politico vicino ai Clinton, è attualmente il public advocate della città di New York, una carica elettiva di creazione recente (dal 1993), con funzioni di controllo della macchina amministrativa e di intervento nel caso di disservizi e proteste dei cittadini. Il ruolo non è di grande potere, né tale da guadagnare a chi lo svolge una particolare visibilità politica, ma de Blasio lo ha incarnato con un attivismo sconosciuto ai public advocate del passato. Durante una recente manifestazione contro la chiusura del Long Island College Hospital, de Blasio è arrivato a farsi arrestare insieme ad altri attivisti e politici democratici. Un gesto che è stato bollato dalla polizia di New York e dai suoi rivali come un modo per guadagnare l’attenzione dei media, ma che l’entourage di de Blasio ha spiegato come un segno della genuina attenzione del candidato alla sorte dei più deboli.
Una miscela di decisa ispirazione progressista e intelligente propaganda è del resto la chiave dell’improvviso balzo in avanti di de Blasio. Un sondaggio Quinnipiac University della scorsa settimana mostra che il public advocate ha praticamente raddoppiato i consensi in meno di un mese ed è ora il favorito tra i candidati democratici. La ragione del suo successo, però, si chiama soprattutto Michael Bloomberg, sindaco di New York da 12 anni, figura passata ormai, nel bene e nel male, alla storia della città, che de Blasio in questi mesi ha continuato a demolire per una politica divisiva, che ha approfondito le differenze tra ricchi e poveri. “A tale of two cities”, il racconto di due città, è l’espressione che più spesso de Blasio ha utilizzato per descrivere il dislivello economico nella città più importante d’America. Un dislivello che l’amministrazione Bloomberg avrebbe reso ancora più drammatico e doloroso.
Per contrastare la strategia seguita da Bloomberg, de Blasio si è concentrato soprattutto su tre idee: rendere più abbordabili gli affitti degli appartamenti in città; migliorare l’offerta degli asili pubblici, facendo pagare il servizio a chi guadagna più di 500mila dollari l’anno; mettere definitivamente la parola fine allo “stop and frisk”, il programma della polizia di New York che consente di fermare e perquisire i passanti sulla base di semplici sospetti, che molti, comprese alcune corti, ritengono un modo per prendere di mira neri e ispanici. Questa proposta ha ridato slancio e prospettiva a una borghesia progressista sparita dalla scena politica durante gli ultimi anni dell’amministrazione Bloomberg, facendo al tempo stesso di de Blasio il candidato di riferimento delle minoranze, che rappresentano ormai il 50 percento del voto.
Oltre che da un profilo politico decisamente progressista, de Blasio è stato comunque aiutato dalle cadute e dai molti handicap dei suoi rivali: l’eccessiva connivenza di Christine Quinn con le strategie del sindaco Bloomberg (Quinn rimane comunque la rivale più agguerrita); lo scarso appeal di William Thompson, l’unico afro-americano in lizza; i continui scandali sessuali che hanno accompagnato la candidatura di Anthony Wiener. Oltre alla politica, de Blasio è stato però capace, in questi mesi, di usare con intelligenza e in certi casi anche con spregiudicatezza gli strumenti della propaganda politica. Fondamentale per la sua ascesa è stata la moglie, Chirlane McCray, conosciuta quando entrambi lavoravano per l’allora sindaco David Dinkins. McCray era una poetessa e militante femminista di una certa fama, dichiaratamente lesbica. I due si innamorarono e sposarono poco dopo. La McCray ha accompagnato in questi mesi il marito a ogni appuntamento elettorale e politico, rivelandosi importante per mobilitare il voto degli afro-americani. Ha anche attaccato l’altra candidata, Christine Quinn – lesbica e sposata con una donna ma senza figli – accusandola di ignorare i problemi delle donne con prole e famiglia.
Altro pilastro essenziale della campagna di de Blasio è stato il figlio quindicenne, Dante, che in uno spot elettorale diventato subito tra i più visti in rete ha raccontato dell’opposizione del padre alle pratiche razziste della polizia di New York. Questa combinazione di macchina politica e famiglia ha alla fine sortito l’effetto voluto. De Blasio ha sottratto a Quinn e Wiener importanti settori della borghesia bianca di Manhattan e Brooklyn, diventando al tempo stesso il punto di riferimento di ispanici e afro-americani. Il cognome gli assicura l’appoggio di un’altra importante comunità cittadina, quella italiana. I suoi rivali possono pure definirlo “un vestito vuoto” che si adatta alle situazioni e che sfrutta demagogicamente il suo ruolo di “garante dei cittadini”. Ma è lui, Bill de Blasio, che a questo punto devono trascinare a terra, se vogliono sperare di riaprire i giochi per diventare sindaco di New York.