Allora per quali persone argomentare? È ovvio, per quelle che dicono di non appartenere a queste categorie. Così avranno qualche strumento in più per smascherare i conigli. Facendo finta, naturalmente, di credere che davvero sono intellettualmente e politicamente onesti.
La legge sull’incandidabilità dice che non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per delitti non colposi, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni. La parola chiave è “condanna”: quella che il giudice pronuncia alla fine del processo, quando non “assolve”. Condanna a cosa? A una pena. Nel caso che interessa B., una pena detentiva superiore a 2 anni di reclusione. E noi sappiamo che la “condanna” inflitta a B. dalla Corte d’appello di Milano e confermata dalla Cassazione è stata: 4 anni di reclusione. Tutto ciò che può influire sulla pena da scontare in concreto avviene dopo la “condanna”. Che sia applicabile o no, un indulto (che diminuisce la misura della pena) che il Presidente della Repubblica commuti la pena detentiva in quella pecuniaria (il che azzera la pena detentiva), che il condannato sia ammesso all’affidamento in prova, tutto questo non ha nulla a che fare con la misura o la natura della pena oggetto della “condanna”. Essa resta quella originariamente stabilita dal giudice e a questa la legge sull’incandidabilità ha fatto riferimento.
Vi sono almeno due buoni motivi a sostegno di questa tesi.
1) il tenore letterale della legge. L’articolo 12 del codice civile (norme sulla legge in generale): si deve interpretare la legge secondo il significato proprio delle parole. E qui si parla di condanna a pena superiore a …; e non di pena da espiare in concreto.
2) i precedenti della Corte costituzionale (sentenza 118/1994): la condanna penale è un semplice presupposto oggettivo di “indegnità morale”, “requisito negativo” ai fini della capacità di assumere e di mantenere determinate cariche elettive. Dunque è la “condanna” del giudice ad avere rilievo quanto all’incandidabilità e non gli interventi successivi della politica (indulto, grazia, commutazione pena).
Quest’ultimo argomento fa giustizia di un’altra trovata di B&C: la presunta inapplicabilità della legge sull’incandidabilità a condanne per reati commessi prima della sua entrata in vigore. È proprio un coniglietto da niente, quasi non ha orecchie per acchiapparlo.
1 – la legge si riferisce alle sentenze, non ai reati. Non dice che è incandidabile chi ha commesso reati ma chi ha riportato “condanne”. Dunque non è il reato a dover essere consumato dopo l’entrata in vigore della legge; è la sentenza che deve essere pronunciata dopo la vigenza della legge.
2 – sottigliezze giuridiche, capisco. Troppo per B&C. Proviamo così. La legge vuole che sia incandidabile chi è stato condannato, non chi ha commesso reati. Attribuisce valore al marchio esteriore, la condanna; non alla circostanza concreta, il reato, che magari non è stato ancora definitivamente accertato o che è rimasto ignoto. Insomma, non sta bene che uno che è stato riconosciuto irrevocabilmente delinquente sieda tra i padri coscritti della Patria. Non è un problema di sostanza ma di forma. Il che ci porta al nocciolo della questione. In realtà al motivo per cui bisogna smetterla di smascherare coniglio dopo coniglio, replicando agli infiniti paralogismi di questa gente. Non ci fossero leggi, Tribunali e Corte costituzionale; né mai fosse stato previsto il caso di un presidente del Consiglio dei ministri che ruba al suo paese centinaia di milioni. Non ci fosse insomma un problema di legalità formale. Quale popolo potrebbe accettare di essere governato da chi viola le stesse leggi che impone ai cittadini che governa?
Il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2013