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Te la do io l’Onu/17 – Ma la Fao a che serve? (Capitolo 2)

Ho raccontato alcune settimane fa come il Direttore Generale della Fao, il Dottor José Graziano Da Silva, rispondendo (con mia grande sorpresa) ad un mio commento sulla sua pagina Facebook, in cui mettevo in dubbio quello che consideravo il solito slogan Onu sulla fine della fame in Africa, mi garantiva invece che non si trattava di slogan, ma di programmi seri, ed accettava, sul momento, la mia successiva proposta di rilasciarmi un’intervista per il mio blog su “Il Fatto Quotidiano”.

Grazie anche ai commenti ed alle domande dei miei lettori, ho dunque preparato un questionario e l’ho inviato al Dottor Graziano Da Silva, il quale tuttavia, alla fine, tramite l’Ufficio stampa della Fao, mi comunicava che i suoi impegni gli impedivano di dare seguito all’intervista, ma che avrei comunque ricevuto le informazioni richieste attraverso i funzionari dello stesso Ufficio stampa. Così è stato, e malgrado una certa delusione per la mancata intervista, il fatto che la Fao non si tiri (completamente) indietro mi sembra comunque  un passo incoraggiante sulla via della trasparenza e di una migliore informazione dei cittadini, con le tasse dei quali funzionano tanto la Fao che il sistema Onu nel suo insieme.

Siamo così riusciti a sapere un certo numero di cose: al di là delle generiche informazioni sul proprio mandato e sulle modalità attraverso le quali opera (non ho spazio per affrontarle nel blog quindi vi rinvio al website, come d’altra parte ha fatto la Fao stessa con me), venendo ai risultati, la Fao ci informa che 38 paesi (di cui 11 africani) avrebbero realizzato l’Obiettivo di Sviluppo del Millennio di ridurre della metà, tra il 1990 e il 2015, la percentuale di popolazione che soffre la fame.

Come ciò sia stato calcolato, in paesi in cui moltissime persone non sono nemmeno iscritte all’anagrafe, come la mia esperienza africana mi ha insegnato, e quale sia il merito diretto della Fao in tutto ciò, non mi è stato chiarito. Né mi è stato chiaramente spiegato come farà concretamente la Fao a mettere fine alla fame negli altri 44 paesi dell’Africa entro il 2025 (tra dodici anni, nel mezzo dell’attuale crisi economica) se, negli ultimi 23 anni, solo in undici di essi i risultati sarebbero stati probanti… tanto più che poi, lo stesso Direttore Generale della FAO, José Graziano Da Silva, ha dichiarato nel giugno scorso, alla riunione dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione Africana, che “l’Africa è la sola regione nel mondo in cui il numero totale delle persone affamate è aumentato dal 1990”; e che quindi a quanto pare la situazione della fame in Africa non sta migliorando, bensì peggiorando.

La Fao ci informa comunque che, al di là della sede romana, essa è presente in più di 130 paesi, e dà lavoro a circa 10.800 persone nel mondo intero, delle quali il 38,8% sono donne: nel dettaglio, sono circa 3.600 i dipendenti Fao veri e propri (1.900 internazionali e 1.700 assunti localmente) e 7.200 sono consulenti, lavoratori occasionali od altro.  3.100 di queste persone lavorano a Roma, e le altre in altre sedi; tra esse, gli italiani sono 1.100, dei quali circa 100 lavorano in una sede diversa da Roma. Trovate poi informazioni sul trattamento dei funzionari FAO (stipendi e benefits) questa pagina.

La Fao ci fa inoltre sapere che il suo bilancio per il 2014-2015 ammonta ad un miliardo e 28 milioni di dollari (con un aumento del 2,2% rispetto al biennio in corso).  Contribuendo 46,7 milioni (ovvero il 4,5% del totale), l’Italia passerà nel prossimo biennio dal sesto al settimo posto tra i maggiori finanziatori della Fao, dietro ad Usa, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito e Cina. La Fao non ci dice quanti soldi sia costata ai contribuenti internazionali dal momento della sua fondazione (nel 1945) ad oggi, ma ci conferma che l’Italia è tradizionalmente uno dei suoi donatori più generosi, e che da solo, dal 1982 ad oggi, il nostro paese, oltre al pagamento della quota obbligatoria del programma regolare  dell’organizzazione, ha donato alla Fao, sotto forma di contributi volontari, almeno altri 740 milioni di dollari che hanno permesso il finanziamento di centinaia di progetti nel quadro del cosiddetto Programma Cooperativo (finanziato da contributi volontari degli Stati, e che si somma al bilancio regolare). Non è comunque chiaro, dalle spiegazioni ricevute, quanto abbia contribuito complessivamente l’Italia in tutti questi anni (per saperne di più sui rapporti antichi tra Fao ed Italia, potrete comunque vedere questo link.

Va detto inoltre che la Fao è solo una delle tre agenzie Onu basate a Roma che si dedicano alla lotta alla fame: le altre due sono il Programma Alimentare Mondiale (PAM) ed il Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (IFAD). Mentre la Fao fornisce assistenza tecnica per la definizione ed esecuzione di strategie di riduzione della fame, il PAM è stato creato nel 1961 con il compito di distribuire cibo in situazioni di emergenza (guerre, disastri). Secondo i dati forniti dalla Fao, nel 2011, il bilancio totale del Pam era di 3 miliardi e 730 milioni di dollari (circa sette volte il bilancio annuale attuale della Fao), e tra il 2008 e il 2012 il Pam ha potuto anche contare su circa 500 milioni di dollari in doni privati. L’Ifad invece è stato creato nel 1977 come istituzione finanziaria dedicata al finanziamento dello sviluppo rurale. La Fao non ci ha fornito dettagli sul costo di questa istituzione.

La Fao non ha peraltro neppure precisato quali percentuali del proprio bilancio siano spese in stipendi e benefits del personale, quanto finisca in consulenze esterne, in conferenze, in viaggi e in altri costi di funzionamento, e quanto invece sia utilizzato per finanziare i programmi, e quanto costi la sede romana rispetto agli uffici nel campo. Comunque sia la Fao ci informa che a domanda dei paesi membri, essa è riuscita a ridurre i propri costi di 25,8 milioni di dollari (circa il 2,5% del bilancio del biennio in corso), con tagli effettuati in maggioranza presso i quartieri generali romani dell’organizzazione; e che con questi soldi ha creato 55 posti supplementari negli uffici decentralizzati.

Non ci è stato chiarito tuttavia se tali aggiustamenti siano il risultato di alcuni articoli della stampa italiana che denunciano i privilegi di cui godrebbe il personale della FAO, e che potete leggere qui, oppure se siano stati provocati dalla lettera aperta che, nel 2006, la vice Direttrice Generale stessa della FAO, l’olandese Louise Fresco, dimettendosi, inviava al Guardian per denunciare il malfunzionamento dell’istituzione, affermando, tra l’altro, che “la maniera in cui il bilancio è stato distribuito negli ultimi bienni mina la credibilità dell’Organizzazione e conferma così l’impressione degli Stati membri che la FAO è incapace di gestire le proprie priorità”, che ci sarebbe “una mancanza di trasparenza nella presa di decisioni” e che l’ex Direttore Generale avrebbe“stimolato una cultura di silenzio, pettegolezzi e persino paura”.

Ci auguriamo che la situazione da allora sia migliorata, anche se non abbiamo ottenuto spiegazioni quanto all’esistenza di meccanismi di controllo che veglino sull’uso regolare e trasparente dei fondi del bilancio, e benchè la FAO non abbia commentato nulla quanto alle critiche emesse ancora di recente, nel 2012, dall’ex Primo Ministro Australiano Kevin Rudd, che accusava la FAO di non avere fatto abbastanza in questi anni per la sicurezza alimentare, nemmeno dopo le crisi alimentari del 2006-2007, e  sosteneva che, per evitare nuovi disastri, non sarebbe bastato pubblicare “un altro mucchio di rapporti”.