Nel 1963, alla mostra del cinema di Venezia, Francesco Rosi con Le mani sulla città, si aggiudicò il Leone d’oro per il miglior film in concorso. A distanza di cinquant’anni, martedì 27 agosto, la rassegna veneziana si apre proiettando la visione restaurata di questo capolavoro della cinematografia italiana, noto e studiato in tutto il mondo.
Il film è ambientato a Napoli, una delle tante città della Penisola dove la speculazione edilizia – negli anni del boom economico, come in quelli successivi – ha devastato il paesaggio. Si racconta di come aree a destinazione agricola possono diventare zone edificabili garantendo profitti enormi agli imprenditori del mattone.
Scrupoloso è stato anche il lavoro di documentazione, alla base del film, che si è avvalso della collaborazione del grande giornalista Enzo Forcella. Rosi – scrive Brunetta in Cent’anni di cinema italiano – rompe con la tradizione dei film stereotipati napoletani degli anni Quaranta e Cinquanta dominati da storielle folcloristiche, dove la malavita è solo una piccola veniale arte di arrangiarsi.
Le mani sulla città è un film di impegno civile nella nuova stagione di rinascita della cinematografia italiana, lasciata più libera di cimentarsi su temi scomodi (è lo stesso anno de La ragazza di Bube, La parmigiana, La corruzione, Il Giovedì, Il boom, Il processo di Verona).
Già al suo esordio Francesco Rosi con La sfida, aveva denunciato la preminenza della camorra sul mercato ortofrutticolo. In Le mani sulla città resta impresso il ruolo dell’imprenditore edile Eduardo Nottola (interpretato dal grande Rod Steiger), politico e speculatore vorace, consigliere comunale pronto a cambiare bandiera pur di realizzare i suoi piani, con tanto di finale benedizione vescovile.
La fotografia sociale del film non si limita a questo: Nottola è chiaramente un personaggio in pieno conflitto di interesse, non dovrebbe essere lui a decidere quali sono le aree edificabili eppure, nonostante il crollo di un palazzo la cui demolizione era stata assegnata alla sua ditta, la sua carriera procede luminosa e diventa assessore.
Rosi ha di fronte lo sfregio della città partenopea (con tanto di dissesto dei bilanci comunali) perpetuato negli anni Cinquanta dalle amministrazioni del monarchico Achille Lauro; un’altra realtà di quegli anni è la grande speculazione edilizia nella capitale: nel 1956 scoppia lo scandalo della Società Immobiliare, coraggiosamente denunciato da “L’Espresso”. Se a Napoli file di palazzoni soffocano le colline del Vomero e di Posillipo, a Roma c’è il saccheggio dei parchi, quello di Castel Fusano sarà il più devastato.
Le vicende narrate ne Le mani sulla città non si limitano a quella stagione. Il film di Rosi diventa profetico, per il futuro immediato e per gli anni successivi.
La questione edilizia è il riflesso dei disordinati processi di trasformazione economica e sociale del Paese: un boom senza regole, piani regolatori aggirati e snaturati da una pioggia di varianti e la consapevolezza, al fondo, che ciò che si costruisce illegalmente non sarà abbattuto.
Non a caso la pianificazione urbana e la disciplina del mercato immobiliare sono poste con forza in quegli anni dal Partito socialista, all’avvio delle esperienze degli esecutivi di centro sinistra. Programmazione economica e riforma urbanistica saranno i temi cruciali di una delle più drammatiche crisi di governo: quella dell’estate del 1964. Alle insistenze dei socialisti del Psi e dei repubblicani, si contrappone il diniego delle correnti di destra della Democrazia cristiana e del presidente della Repubblica Antonio Segni che giudica la proposta socialista del ministro dei Lavori pubblici Giovanni Pieraccini, una legge di nazionalizzazione della casa.
A raffreddare gli spiriti riformatori giunge anche quello che il leader socialista Pietro Nenni definirà “rumore di sciabole”, alludendo alla minaccia di un colpo di Stato nel corso delle trattative per il nuovo governo. Solo nel 1967 l’opinione pubblica conoscerà una parte di questa verità quando i giornalisti dell’Espresso riveleranno lo scandalo del Sifar (i servizi segreti di allora) e il Piano Solo.
Le denunce sociali spesso svegliano le coscienze, ma non sono sufficienti per vincere le battaglie politiche.
In termini economici la rinuncia alla riforma urbanistica ha sovraccaricato di costi lo sviluppo, con l’aumento esponenziale della rendita fondiaria, per non parlare del congestionamento urbano che ha impedito la crescita ordinata e funzionale delle città. Il danno più evidente si è però verificato sul piano della mentalità. La mancata riforma ha inciso sull’identità degli italiani, sul loro rapporto con le leggi e la legalità determinando la convinzione che tutto sia possibile e quello che è impossibile sarà comunque sanabile.
Per questo motivo il film di Rosi non è solo un documento storico, ma resta di drammatica attualità.
L’Italia è il Paese che in Europa ha divorato più suolo e la realtà degli anni Cinquanta e Sessanta, alla fine, non è nemmeno la più drammatica.
I dati Ispra ci dicono che nel 1956 il consumo di suolo era di 8.000 chilometri quadrati mentre nel 2010 si sono superati i 20.000 occupando il 6,9% di territorio (visualmente un’area pari a quelle di Milano e Firenze) a fronte di una media europea che si arresta al 2,3%. Inquietante l’esplosione edilizia in Lombardia che arriva a mangiare il 10% di suolo.
La speculazione sul mattone resta ancora un affare facile. In Italia manca una legge salva suolo accompagnata da norme efficaci che impediscano ai Nottola di turno di essere, allo stesso tempo, arbitro e giocatore.