Contrariamente a certi frustri clichés diffusi a piene mani dalla destra e da certa ex sinistra, in disarmo ideologico e alla ricerca di nuovi pascoli e possibili acquirenti (dato l’esaurirsi delle tradizionali greppie), Cuba, dalla rivoluzione in poi, ha attribuito grande importanza alla formazione di un pensiero anticonformista, libero ed originale da parte delle giovani generazioni.
Fidel, che torno a salutare a pochi giorni dal suo ottantasettesimo compleanno, ebbe ad esempio a scrivere già più di cinquanta anni fa: “non vogliamo una gioventù che si limiti ad ascoltare a ripetere, vogliamo una gioventù che pensi. Non vogliamo una gioventù che ci imiti, ma che apprenda per se stessa ad essere rivoluzionaria e che si convinca da sola ad esserlo, una gioventù che sviluppi pienamente il suo pensiero”.
Parole scritte nel 1962, ma che oggi più che mai dovrebbero essere prese sul serio ed applicate. Nel frattempo il mondo e Cuba ne hanno passate di tutti i colori. Dalla crisi dei missili del 1962 al periodo speciale degli anni Novanta quando, dopo la crisi verticale ed improvvisa del blocco sovietico, erano ben pochi a voler scommettere qualche centesimo sul futuro del sistema socialista nell’isola.
Eppure, Cuba ha resistito, nelle difficilissime condizioni imposte dall’assedio incessante dell’imperialismo statunitense. E non solo ha resistito, ma ha diffuso in grande misura e con grande efficacia il suo esempio nel resto dell’America Latina. Sono nate nuove ed originali esperienze, dal Nicaragua sandinista nel 1979, al Venezuela di Chavez negli anni Novanta, alla Bolivia di Morales e all’Ecuador di Correa all’inizio del Terzo Millennio. Mentre i giganti della regione, Argentina e Brasile, affermavano, sia pure con notevoli contraddizioni, evidenziate tra l’altro dai grandi movimenti democratici di massa di qualche mese fa in Brasile, una via autonoma allo sviluppo.
Inutile negare, peraltro, che l’assedio, fatto di strangolamento economico e di attentati terroristici, abbia avuto qualche effetto in termini negativi sulla qualità della vita a Cuba, sia dal punto di vista della disponibilità dei beni che da quello della democrazia. E’ del resto inevitabile che, quando si è in guerra, si tenda a trascurare questi pur fondamentali aspetti. E Cuba, nata nel 1898 come colonia de facto degli Stati Uniti, è in guerra non dichiarata da oltre cinquant’anni per difendere l’indipendenza effettiva raggiunta solo con la rivoluzione del 1959.
Non sarebbe ora di por fine a questa guerra? Io penso di sì. Numerosi passi in questo senso sono stati del resto compiuti negli ultimi anni da parte cubana. Liberalizzazioni economiche per dare fiato alla piccola impresa (tema cruciale sul quale dovremo tornare presto anche in relazione alle vicende di casa nostra), ampliamento dell’accesso a Internet ora possibile grazie al nuovo cavo telefonico messo a punto con l’appoggio del Venezuela, maggiori possibilità di viaggiare all’estero, liberazione di molti dei cosiddetti dissidenti.
A quanto pare la rivoluzione non ha paura, e fa bene, della sfida sul piano della libera circolazione delle idee. Yoani Sanchez, la bloggera che patetici sedicenti paladini della libertà hanno elevato a loro eroina dimenticando le decine di giornalisti uccisi ogni anno in Paesi come Messico, Colombia o Honduras, può andarsene in giro per il mondo libera, e decidere, come ha fatto, di snobbare il suo affezionatissimo seguace italiano perché l’offerta economica ricevuta altrove le pareva a buon diritto più allettante. Sinceramente non credo che, come Italiani, ci siamo persi granché. Ad ogni modo occorre essere pronti a confrontarsi anche con il suo punto di vista.
La rivoluzione non ha paura della libera circolazione delle idee, delle persone e dei beni. L’imperialismo invece sì. Tanto è vero che continua a mantenere un antistorico e odioso embargo che cozza paradossalmente (ma non troppo) anche contro i principi (e le norme) del liberalismo internazionale basato sulla libertà di commercio.
Nonostante da anni e anni tutta l’Assemblea generale delle Nazioni Unite voti contro, tranne ovviamente gli Stati Uniti, Israele (che però mantiene normali rapporti commerciali con Cuba) e un microstato dell’Oceania a turno, reclutato in cambio di qualche prebenda (probabilmente limitata a qualche funzionario accondiscendente). Così come continua a tenere in galera da quasi quindici anni quattro dei cinque mitici combattenti antiterroristi cubani che, con la loro presenza sul suolo statunitense, hanno sventato numerosi attentati salvando molte vite umane (su questa vicenda torno a raccomandarvi il film cui ho avuto l’opportunità di collaborare, The Cuban Wives, che sarà presente prossimamente in vari festival a livello nazionale, come Sciacca e Cortona, e internazionale, e che sarà disponibile dal 12 settembre in Video On Demand su www.ownair.it).
Obama, sarebbe il caso che tu la facessi finita con questa politica. Se vuoi essere ricordato per qualche cosa di buono, in concreto, comincia con il porre fine al blocco contro Cuba e con il liberare, come ti è stato richiesto da molti, i quattro combattenti antiterroristi cubani tuttora in carcere. Accetta la sfida della libertà di scambio, della parità e della reciprocità. Il mondo te ne sarà grato. E darai un segno davvero importante sul fatto che è possibile la convivenza e cooperazione pacifica anche fra diversi, superando ogni tentazione di ricorrere alla sopraffazione e alla violenza. Non sembri oltraggioso chiederlo a chi come te è stato insignito del Nobel per la Pace.