Il grattacielo progettato da Renzo Piano a Torino
Fino a pochi anni fa Porta Palazzo, nel centro storico di Torino, aveva una sua ben definita fisionomia e geometria. Divisa in quattro spicchi, sui due spicchi situati a nord sorgevano due distinti mercati, uno degli alimentari ed uno dell’abbigliamento.

Pur essendo stati realizzati in epoche ben diverse, questi ultimi due mercati erano speculari come forma. Oggi non più, nel senso che quello dell’abbigliamento è stato sostituito da un edificio di colore verde di metallo, cemento, plastica, vetro, ideato da una cordata di architetti guidata da Massimiliano Fuksas.

Sarò un tradizionalista (in qualche modo gli ambientalisti sono dei conservatori), ma mi domando se fosse il caso che il Comune di Torino (notoriamente uno dei più indebitati d’Italia) spendesse tanti soldi pubblici per realizzare questa anomala (e, a mio pare, anche orribile) struttura in una delle piazze di juvarriana concezione.

Ma soprattutto mi domando, a monte, se era il caso di spendere 15 milioni di euro per la realizzazione della trasformazione parziale della piazza. Per la carità, il cosiddetto “Palafuksas” (anche se lui non vuole si chiami così) avrà anche i suoi pregi, soprattutto dal punto di vista energetico, ma, ripeto, per raggiungere questo risultato era il caso di spendere così tanto, in epoca di ristrettezze economiche? Non si poteva proprio agire sull’esistente? E poi ancora: quanto è costata la parcella di Fuksas? Probabilmente molto, a giudicare da questa altra notizia.

Sempre a Torino, sempre l’archistar e ‘compagno’ Fuksas ha progettato il nuovo Palazzo della Regione: altezza 205 metri, e sfregio allo skyline di Torino. Qui, il compagno Fuksas ha presentato una parcella non propriamente proletaria: 22 milioni di euro, interamente saldati dalla giunta Pd guidata dall’altra compagna Mercedes Bresso, per un palazzo del costo di 262 milioni di euro. Il leghista Cota invece gli ha affidato la direzione artistica: 240 mila euro per sei mesi di lavoro. Vale la stessa domanda di cui sopra. Anche qui il palazzo sarà ad emissioni zero, ma era il caso di spendere una simile cifra solo per il progetto e la direzione artistica? Tra l’altro, sulla somma spesa sta indagando la Corte dei Conti.

Ancora e sempre a Torino, opera l’archistar italiana per eccellenza, Renzo Piano, che ha progettato invece il contestatissimo grattacielo di Intesa San Paolo, che con il suo metro in meno rispetto alla Mole Antonelliana, cambierà anch’esso lo skyline della città. La parcella di Piano è pari al 15% del costo dell’opera (stimato in 350 milioni di euro). Ma questi almeno sono soldi privati. E che dire invece dei soldi con cui L.T.F. remunererà l’archistar giapponese Kuma, che ha presentato e vinto il concorso per la futura (futuribile) stazione TAV di Susa?

Ma le archistar imperversano anche in riva al mare. Prova ne sono i due “crescent” (che sta per “luna crescente”, ma in realtà è una grande colata di cemento a forma di spicchio di luna), concepiti dallo spagnolo Ricardo Bofill a Savona e Salerno, il primo prima contestato e poi realizzato, ed il secondo invece ancora fortemente contestato, anche se altresì fortemente voluto dal sindaco PD De Luca.

Ma, a parte i costi, quello che lascia anche fortemente perplessi è la volontà di queste archistar (al di là delle non convincenti affermazioni che accompagnano i progetti) di lasciare il proprio segno sulle strutture cittadine o nell’ambiente naturale in cui operano. Anziché operare in umiltà, inserendo le opere nei contesti in modo armonioso, essi realizzano quasi sempre opere in contrasto con essi. Anche se c’è da rilevare che tale tendenza sembra essere generalizzata negli architetti, dimodoché anche i nuovi quartieri delle città non appaiono più come uno sviluppo logico ed armonioso delle stesse, ma realtà avulse dal contesto urbano.

Siamo in un’epoca di grande crisi: sobrietà ed umiltà dovrebbero essere le parole d’ordine.

 

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